Il lungo viale al centro della città è deserto. Solo un uomo anziano cammina sotto il sole, con una torcia elettrica accesa nonostante la luce estiva. È Spartaco Guidi. Qualche mese dopo, il suo corpo viene ritrovato in un terreno di campagna. L’autopsia viene affidata al medico legale Ardelia Spinola. Dopo tanti anni di esperienza, sa che il suo compito è solamente quello di circoscrivere l’ora della morte, di stabilirne cause e dinamiche. Ma non è facile zittire l’anima investigatrice che c’è in lei. Anche se, in realtà, avrebbe ben altro a cui pensare.
Arturo, l’affascinante apicultore (e amante dei gatti come lei) che da pochi mesi è nella sua vita, sembra nascondere qualcosa che le sfugge. Qualcosa che le fa temere di perderlo, anche se ammetterlo per lei è difficile. E quando scopre che la casa di Spartaco Guidi è stata messa sottosopra, tutta la sua attenzione torna sul caso.
Scopre che l’uomo era tornato da poco ad Albenga, il suo luogo d’origine, dopo decenni passati in ospedale psichiatrico per aver ucciso un amico in gioventù. Eppure tutti parlano di lui come di una persona di animo buono. Cosa l’avrà portato a quel gesto, allora, e adesso a subire una morte violenta? L’intuito di Ardelia non sbaglia mai, e stavolta le dice che il ritorno della vittima in città è la chiave del mistero.
Ma non è facile scovare dove si nascondono le ombre. Soprattutto se ci sono tanti piccoli dettagli che sfuggono. Dettagli fondamentali perché le tessere di un puzzle possano combaciare. Finché la verità non è talmente vicina da accecare, e diventare quasi invisibile…
Cristina Rava torna in libreria con il medico legale Ardelia Spinola, una donna forte e indipendente che l’amore mette sempre a dura prova. Tra distese di serre scintillanti al sole e le chiome argentate degli ulivi fra cui s’intravede il mare ligure, Quando finiscono le ombre (Garzanti) è un romanzo in cui il passato nasconde molti segreti, ma è il presente a fare più paura.
Per gentile concessione dell’editore, pubblichiamo, in anteprima per i lettori de ilLibraio.it il prologo e il primo capitolo del romanzo.
MARTEDÌ 16 LUGLIO 1968
Leca è una frazione di Albenga, una manciata di case cresciute lungo la strada. Intorno una distesa piatta di campagne e serre, rovente d’estate e spazzata dal vento d’inverno.
Il mare davanti, le montagne dietro, nel mezzo il bar di Annibale.
Fino a poco tempo fa il bar era frequentato soltanto da uomini, ma da quando un grosso televisore domina la sala, sono arrivate anche le donne. L’ultima novità è il bancone dei gelati confezionati. I ragazzini entrano, comprano un ghiacciolo o un ricoperto e spariscono. Scappano correndo o in sella a vecchie biciclette. Stanno in piedi sui pedali, un amico seduto sulla canna, e mentre spingono con le gambe troppo corte oscillano da far paura. A loro non interessa il telegiornale che parla di contestazione, di Vietnam, di missioni Apollo. Capita però che nelle sere estive tornino al bar al momento di Carosello e poi via di nuovo, a caccia di lucciole. Con la bella stagione, Annibale ha messo fuori il dondolo e quattro tavolini dove la gente si gode il fresco. È il crepuscolo, si sente odore di terra calda, annaffiata da poco. Concerti di grilli accompagnano le prime stelle. Al banco, in attesa che il caffè si raffreddi, c’è un giovane uomo con gli occhiali. Lenti spesse nascondono occhi inquieti: girini in un bicchiere. Non guarda la TV, la ascolta. Strappa una striscia bianca dalla pagina di un quotidiano buttato lì e ci scrive qualcosa, bevendo il caffè. Dopo aver posato la tazzina, tira fuori un foglietto dal taschino della camicia. Lo legge o forse lo rilegge, confrontandolo con quel che ha scritto. Dà un’occhiata intorno per vedere se gli altri lo stanno osservando, ma nessuno fa caso a lui. «Annibale, me lo segni?» grida al padrone, rimettendo tutto nel taschino. Quello annuisce, continuando ad asciugare un bicchiere. Un uomo entra nel bar in quel momento, e deve fare un balzo per non urtare il giovanotto sulla soglia.
«Oh Spartaco, dove vai così di corsa?» gli chiede.
«A casa, vado a casa!»
«Va ben, ma non è mica tardi! Fermati! Un giro di scopa?» propone il tizio avvicinandosi a un tavolino dove altri stanno giocando a carte.
«No, no, non posso, ho ancora delle cose da fare», risponde Spartaco mangiandosi le parole per la fretta.
«Allora buonanotte!»
«’Notte.»
Qualcuno si volta a guardarlo mentre inforca la bicicletta e si tuffa nel buio.
In quel bar di paese si conoscono tutti e, tra quelli che l’hanno salutato o soltanto intravisto, nessuno lo rivedrà mai più se non nelle fotografie dei giornali, nelle pagine di «nera».
Poi sulla sua storia scenderà il silenzio. Ma nella sua testa no, la sua testa sarà piena di urla.
PRIMO CAPITOLO:
CHIARORI NOTTURNI
Allungo la mano dalla sua parte e mi accorgo che il letto è vuoto. Oh caspita! E dov’è? Ribalto il piumone e butto giù le gambe. Melissa, la gatta, mi guarda infastidita e si gira di schiena. Non sembra turbata dall’assenza di Arturo. Sbadiglia e comincia a leccarsi la zampa e a passarsela dietro l’orecchio. Tasto con le dita dei piedi il pavimento di legno in
cerca delle pantofole e mi alzo.
«Arturo?»
Silenzio, poi il ticchettio delle unghie di Arto, il pastore tedesco che viene ad annusarmi e mi guarda.
«No, amore, non chiamavo te, stavo chiamando il tuo padrone. Sai dove diavolo è finito?»
Il cane si accuccia e poi si lascia scivolare dolcemente sul tappeto. Nemmeno lui sembra particolarmente preoccupato da quest’assenza.
«Arturo?» ripeto dirigendomi in cucina, illuminata dai bagliori rossastri di un ceppo che arde dietro al vetro della stufa. Guardo sull’attaccapanni dell’ingresso: il suo piumino non c’è, guardo fuori: il pick-up sì. Un’idea mi folgora. Sicuro che è ad armeggiare con i suoi alambicchi! Ma che personaggio sono andata a scegliermi: un quarto apicoltore, un quarto bibliofilo, un quarto alchimista per diletto… e l’altro quarto? Meglio non chiederselo.
«Voi fate i bravi, vado solo un momento a vedere cosa combina Arturo e torno.»
Indosso la giacca sul pigiama, accosto la porta alle mie spalle e faccio il giro della casa. Freddo artico. Nevischia, ma i fiocchi non si posano ancora. Sento il rumore di un’auto che passa sulla strada. Il comignolo sopra il laboratorio diffonde un bianco pennacchio
profumato sullo sfondo del cielo nero. Arrivo alla porta dell’antro dell’alchimista e la trovo sbarrata. La spingo ma non cede. Non busso, non faccio rumore.
Un’unica finestra in alto mi rivela un interno debolmente illuminato, statico. È evidente che vuole lavorare da solo. Spedizione inutile: si torna in casa.
Per riprendermi dal freddo metto sulla stufa l’acqua per una tisana. Faccio un mix di mia invenzione: valeriana, melissa, achillea, speriamo che sia buono. Ripongo i tre barattoli di vetro nella folla di contenitori, tutti con la loro bella etichetta scritta a mano dal «maestro». Lascio riposare l’intruglio. Aggiungo un ceppo e le braci scoppiettano. Mi siedo e ricomincio a farmi le solite domande di sempre, intorno a quel che ignoro del mio uomo, commiserandomi per gli scarsi successi delle mie indagini. Non sono tanto gli aspetti sconosciuti del suo lavoro a disturbarmi, quanto quelli del suo cuore. È buono e gentile, protettivo quanto basta, forse un po’ troppo perfettino, ma il mio istinto mi dice che esiste un lato oscuro ben più grande.
Il movimento delicato della tazza che mi scivola dalle mani mi sveglia. La stringo per paura che cada, ma qualcuno la sta tirando. Apro gli occhi. Arturo è chino su di me con un sorriso.
«Arturo… Oddio, devo essermi addormentata… Ma cosa stavi facendo?»
«Ci sono lavori che devo fare di notte. Vieni, andiamo a dormire.»
«Ma…»
«Niente ma. È tardissimo, vieni, su.»
L’ultimo ricordo che ho prima di addormentarmi è la dolcezza delle sue labbra che mi danno il bacio della buonanotte.
La prima sensazione che ho al risveglio è sentirlo dentro di me che si muove dolcemente. Sono felice. A colazione facciamo progetti per la giornata, una bella domenica di fine autunno o inizio inverno, va a giorni, e oggi splende il sole. Melissa se lo gode tutto facendo toeletta sulla poltrona accanto alla finestra.
«Hai voglia di fare un po’ di chilometri?»
«Dipende… A piedi, no.»
«No, tranquilla, non pensavo di farti fare una scarpinata.»
«Allora va bene.»
Me la prendo comoda perché corro già abbastanza durante la settimana, e così passano ancora due ore ma alla fine riusciamo a metterci in moto, panini e thermos nello zaino.
Partenza sotto la cupola blu di un cielo limpidissimo come può esserlo soltanto in montagna. Ma con l’aumentare della quota, compaiono le prime nuvole bianche. Nuvole da neve, dicevano i vecchi.
«Non mi fido ad andare oltre. Mi hanno detto che c’è stata una brutta frana. Spero che ti accontenti», dice sbattendo la portiera.
Mi guardo intorno stringendomi nel piumino. Sono senza parole. La neve è uno strato sottile, un’infarinatura sull’erba gialla. Come ritagli di latta, i cardi tremano nel venticello gelido. I rododendri sono macchie brune, le malghe e i pascoli deserti. Un rapace fischia e si lascia trasportare dal vento. In cielo le nuvole si sfilacciano, poi si urtano, per coagularsi in masse più scure. Rari scampoli d’azzurro durano un attimo.
Il massiccio carsico del Marguareis ci sta davanti, un orso pietrificato.
«Non ero mai stata quassù.»
«È un luogo estremo, come il mare aperto. Soltanto se stai bene con te stesso torni a valle più forte.»
«A te piace tanto?»
«Certo, è casa mia. Credo di essere tra i pochi fortunati ad aver avuto un’infanzia serena, e la montagna mi riporta a quel tempo. Gli odori, i colori, la vertigine della quota. Non
importa se i villaggi sono spopolati, se i vecchi sono morti. Finché mi ricorderò di loro, per me non moriranno mai.»
«Qui siamo in terra occitana, vero?»
«Sì, questa terra è occitana, un posto in cui dire ligure, piemontese, francese o catalano è semplicemente ridicolo.»
«E tu sei occitano?»
«Al cento per cento. Ho vissuto lontano, viaggiato nel mondo, conosciuto tanta gente, ma appartengo a questa terra, come la lavanda.»
Improvvisa, una raffica di tramontana ci fa scappare. Arturo mette in moto e gira il pick-up. Il vento ringhia e fa dondolare l’abitacolo. Per un po’ guardo l’abisso, lui se ne accorge e si mette a chiacchierare per distrarmi. Sostiamo in una radura a lato della strada, persi tra rivoli di parole e scampoli di racconti. Mangiamo i panini e sorseggiamo il caffè bollente, briciole dappertutto. Poi comincia la discesa. Il tramonto, più grigio che rosa, è già arrivato. Per me solo una breve tappa a Ormea a casa di Arturo, per recuperare il bagaglio, e poi mi aspetta il rientro in Liguria. Una cinquantina di chilometri mi separa da casa. Guido tranquilla: l’imbrunire precoce, le nuvole basse, la pioggerellina gelata potrebbero essere ottimi motivi per sentirmi triste, e invece no! Provo una gioia innocente, come quando si entra in una casa illuminata dal camino, al ritorno da luoghi gelati. Domani è lunedì e nemmeno questa idea riesce a demoralizzarmi. Mentre parcheggio il mio pick-up sotto casa, alzo lo sguardo e vedo le finestre illuminate. Niente ladri: sono zio Gabriel e la sua governante polacca Teresa, custodi e cuochi occasionali. Mangiano spesso da me, nel senso che mi preparano la cena, gesto molto apprezzato, soprattutto alla fine di pesanti giornate di lavoro. Ormai non potrei più immaginare la mia vita senza di lui. Un vecchio ebreo incontrato per caso e diventato come un padre. La sabbia nella sua clessidra scorre veloce e sta calando: ogni granello è prezioso e non posso perderne neppure uno. Raccatto le carabattole dai sedili posteriori e con la coda dell’occhio vedo un ombrello nero, già lucido di pioggia, che dondolando si avvicina al mio cassone: è Teresa che è scesa per aiutarmi a trasportare in casa pacchi e borse.
Finalmente ho una famiglia, costruita sulle solide fondamenta della scelta. Entro: gatti pasciuti e ronfanti nel cestone. Alzano appena le testoline dedicandomi uno sguardo assonnato; sono io, nessun pericolo, ma anche nessuna novità. Riprendono a dormire.
«Tutto bene sulle montagne?» mi chiede Gabriel liberandomi dalla giacca a vento.
«Sì, molto, molto bene. Ho passato proprio un bel fine settimana.»
«Sono contento. Qui ha piovuto, con Teresa abbiamo fatto una passeggiata fino al mare e poi abbiamo deciso di profanare la tua cucina.»
«Avete fatto bene. Basta che non mi abbia fatto il boršč !»
«No, non ho fatto quello», protesta la governante dalla cucina. «Cattiva Ardelia, il mio boršč è meraviglioso! Comunque è arista di maiale con patate e cavoli al forno.»
Maiale, evviva la kasherut! La prima cosa che ha fatto Gabriel Steiner appena atterrato all’aeroporto di Fiumicino, di ritorno da Israele, è stata ordinare un panino col prosciutto di Parma.
Abbiamo cenato, la lavastoviglie borbotta, con Arturo ci siamo dati la buonanotte per telefono e adesso mi gusto una mezz’oretta di conversazione con lo zio. Teresa è già andata a dormire. Ho vinto la loro resistenza e li ho convinti a fermarsi qui. Fuori sta diluviando. L’acqua scroscia a ondate e nelle pause si sentono le grondaie tossire. Il piacere delle chiacchiere ha rosicchiato il tempo e ora abbiamo sonno.
«Sono contento, sai, che tu abbia incontrato Arturo. È la persona giusta per te. Mi piace molto», e si alza di scatto dal divano, risvegliando i gatti.
«Quindi, secondo te posso fidarmi di lui?»
Si ferma in mezzo alla stanza e tace per un attimo. «Se vuoi sapere se ti ama, credo di poterti rispondere sì. Se invece vuoi sapere se conserva ombre nel suo cuore, be’, anche
a quello ti rispondo sì. Mia moglie e io ci siamo amati profondamente finché è vissuta, ma se per un caso stravagante avessi scoperto che mi nascondeva un segreto, non ne
sarei rimasto stupito. Penso solo che abbia saputo custodirlo bene. Buonanotte…»
Mi alzo anch’io lentamente e, nel breve tragitto verso la camera, mi accorgo di essere stanchissima. Tutti abbiamo segreti, pensieri e scampoli di passato che non vorremmo venissero alla luce… Tutti li abbiamo, chi più chi meno.
«Dottoressa Spinola, buongiorno, sono Mancuso.»
Ahia, il comandante della Polfer! Brutto risveglio!
«Mi dica.»
«Un corpo sulla linea ferroviaria tra Albenga e Ceriale.»
«Dove, con precisione?»
«Siamo abbastanza vicini al ristorante Lo Scoglio, ha presente?»
Presentissimo: è il ristorante di una mia cara amica.
«Sì, arrivo subito.»
«Un consiglio. Vedrà che sopra il muretto di contenimento del terrapieno c’è una palizzata in cemento che rende difficoltoso l’accesso alle rotaie. Dal lato opposto del sottopasso invece c’è un tracciato libero, vicino al grosso masso che porta l’insegna del ristorante. Da lì è facile.»
«Mi dia venti minuti.»
Gabriel sta aprendo il forno. L’aroma di brioche stenderebbe una squadra di rugby.
«I morti non fanno colazione. I vivi sì. Oltretutto fa un freddo cane. Mangia qualcosa di caldo e poi vai.»
Ubbidisco e mi siedo a tavola. Caffè americano, il mio preferito, e brioche.
«Teresa dorme ancora?»
«È a messa.»
«A messa? Di lunedì alle sette e mezzo del mattino?»
«Sì, cara. Da quando la conosco, non credo che abbia saltato una sola volta. Una specie di rito propiziatorio per affrontare la settimana in grazia di Dio. Lo faceva già in Polonia… Com’è morto, il morto?»
«Sotto il treno.»
«Brutto modo di morire!»
«Sì, in genere sono abbastanza spantegati.»
«A cosa serve il medico legale?»
«Per accertare la morte.»
«Non basta una persona dotata d’intelligenza anche modesta?»
«Non credere. La dinamica della morte per arrotamento ha un sacco di variabili. È raro, ma ci sono stati casi di sopravvivenza, sebbene con ferite gravissime. E poi bisogna stabilire la modalità.»
«Sarebbe a dire?»
«Sarebbe a dire che non sempre si tratta di suicidio. Ci sono i dementi che attraversano, i ragazzini che fanno i furbi, quelli che vogliono nascondere un omicidio.»
«E tu riesci a stabilire tutte queste cose?»
«Ci provo.»
Uno sguardo ostinato che non capisco.
«Cosa c’è?»
«Be’… Ti ammiro.» Poi si riprende e chiude quasi bruscamente:«Finisco di mettere a posto e vado. Vuoi pranzare da noi?».
«Grazie, ma sarà meglio che oggi mi tenga leggera. Quando salgo a Ormea mangio come un animale da cortile, adesso colazione ricca… Per pranzo andrà bene uno yogurt, oltretutto ho dei papiri da rivedere.»
«D’accordo. Allora ci sentiremo. Dammi un bacio.»
In un attimo sono al volante. Aspetto che il motore ronfando si scaldi, avvolta dall’abbraccio di un inverno ancora giovane. Imboccando il lungomare, in direzione di una Palmaria remotissima mi appare qualcosa di sulfureo: è il sole che emerge dall’acqua. Cielo terso, gonfio di vento come una vela blu.
Mentre posteggio vedo un capannello di persone sulla rotaia a pochi metri dal ristorante di Anna. Trovo il passaggio accanto al masso, uno stretto tratturo in mezzo alle erbacce falciate dal vento. Mi domando perché tanta gente passi da lì: tutti suicidi o soltanto imbecilli? Arranco aggrappandomi a ciuffi stenti e per l’ultimo pezzo accetto l’aiuto di un militare dell’Arma. Appuntato, maresciallo, luogotenente… Non imparerò mai. Meglio aspettare che lo chiami qualcuno.
«Buongiorno dottoressa. Venga, l’accompagno.»
Il cielo sta schiarendo in fretta. La prima cosa che vedo è un pezzo di vestaglia rosa insanguinata che sventola, aggrovigliata a un bullone di una traversina. Poco più in là un piede minuto con le unghie smaltate.
C’è parecchia gente. Mancuso mi fa un saluto di circostanza.
«Stiamo aspettando la polizia scientifica dalla questura di
Savona. Deve arrivare anche il magistrato.»
«Chi è di turno?»
«La dottoressa Fabiana Colombo.»
«Mai sentita.»
«È d’incarico recente», e mi fa cenno di avanzare sulla massicciata. «Ci sono resti per più di quaranta metri», spiega.
Inizio a camminare sulle traversine del binario parallelo in direzione di Ceriale.
«Le rotaie lato monte son quelle dei treni che vanno verso…?» chiedo.
«Ventimiglia.»
«Quindi è stato un treno che andava verso Genova?»
«Esatto. È stata trovata una gamba su uno scoglio sottostante la massicciata.»
Il mare è piatto, spazzato verso il largo. Limpidissimo.
Arrivano rumorosamente due auto senza contrassegni. Da una scendono tre uomini della Scientifica, dall’altra una donna accompagnata dall’autista. Deve essere Fabiana Colombo. Piuttosto giovane, capelli biondi ricci e occhiali dalla montatura scanzonata, azzurro puffo. Jeans e scarpe sportive, arranca tra le pietre e le erbacce.
«Buongiorno», sbuffa, «sono Fabiana Colombo, il PM: lei è la dottoressa Spinola, immagino.»
«Sì, molto piacere.»
Non si dà arie e ha un sorriso diretto.
Mentre gli agenti della Scientifica si apprestano a compiere i loro riti, mi rivolgo a Mancuso.
«Non avete trovato la testa?»
«No, da nessuna parte, ma non abbiamo ancora finito. Invece il tronco è là, venite», dice invitandoci con la mano a seguirlo.
Il tronco manca di buona parte delle gambe e delle braccia. Presenta lacerazioni profonde e un evidente schiacciamento del torace, senza però fuoriuscita di organi. Degli indumenti è rimasto solo il brandello rosa, intriso di sangue e di sporcizia inglobata durante il trascinamento.
«Dottor Mancuso, ho notato che non ci sono treni sulla linea. Quello che l’ha travolta ha proseguito? Chi è stato a informarvi?» domando io.
«Sì, ha proseguito», risponde il dirigente Polfer. Forse direbbe ancora qualcosa, ma la Colombo chiede: «Senza che il macchinista si sia reso conto di quello che era successo?».
«Capita. Il treno è stato individuato questa mattina alle sei e un quarto a Milano-smistamento da un verificatore. Ha dato l’allarme dopo aver notato un pezzo di straccio insanguinato agganciato sotto un locomotore. Ci sono molte sporgenze che scorrono a pochi centimetri dalla rotaia e sono quelle che agganciano gli indumenti. Una volta agganciato, il corpo viene trascinato e può finire facilmente sotto le ruote. Talvolta è soggetto a torsioni. Paradossalmente lo stato di conservazione è migliore se la vittima è nuda. In questo caso invece, vestaglia e camicia da notte sono state micidiali. Il macchinista può non accorgersene, come ho detto, soprattutto se accade di notte e a velocità sostenuta.»
«È passato più di un treno prima dell’allarme?» aggiungo io.
«Quattro.»
«E nessuno ha notato niente?»
Guardo l’espressione stupita del magistrato: deve sembrarle inverosimile.
«No. Quattro merci. Non fermano in stazione, quindi non frenano e percorrono questo tratto a circa 125 chilometri orari; non dimentichi che era notte. Era praticamente impossibile vedere. Tenga anche conto dell’effetto sorpresa.»
«E poi se n’è accorto un macchinista questa mattina?»
«Sì, con il regionale delle sette e trentasei per Ventimiglia.»
«Per la luce?»
«Oddio, non è che ci fosse tutta questa luce. È che procedeva più lentamente. Stava per entrare in stazione e quindi stava frenando. Per questo ha potuto vedere i resti sull’altra linea.»
«Giusto, il corpo era sul binario dei convogli in direzione Genova-Milano… lui era sull’altro…» dice quasi tra sé la Colombo, guardando a terra con aria mesta. Mi suscita un’istintiva simpatia.«E così può succedere che il macchinista non senta nessun colpo», ripete, quasi a volersi convincere.
Mancuso coglie la difficoltà e spiega. «Paradossalmente, a seconda di come è posizionato il corpo, il macchinista può non avvertire proprio niente. Ma anche quando sente qualcosa, capita che sulla linea siano presenti rifiuti, animali, pietre: non sempre si ferma un convoglio per accertare la causa del rumore.»
Lascio la dottoressa a parlare con Mancuso e mi avvicino agli uomini della Scientifica.
«Avete notato qualcosa di significativo?»
«Ben poco, dottoressa», risponde un agente con gli occhi chiarissimi, che lacrimano per il vento gelido. «Credo sia inutile continuare a cercare la testa, perché abbiamo trovato
frammenti di osso con tracce di cuoio capelluto, un pezzo di mandibola e alcuni denti. Quindi direi che è perduta. Glieli faccio vedere.»
Facciamo qualche passo e nel raggio di pochi metri troviamo alcune schegge di osso piatto e curvo, dove sono evidenti tracce di capelli tinti di rosso ma bianchi alla radice.
Mi rialzo e noto che la giudice sta parlando con una donna alta, che la sovrasta di due teste, cappello della divisa compreso, che tiene schiacciato con la mano. È Clementina
Canavero, mia intima amica, capostazione. In silenzio mi ero augurata che fosse lei di turno, pur immaginando che non ne sarebbe stata contenta. Se non altro per far due parole, magari meno formali. Poi, non vedendola arrivare, non ci ho più pensato. E adesso eccola qui, come un regalo in ritardo.
«Ardeliaaa! Oh, sei di turno! Meno male, speravo proprio che ci fossi tu. Sapessi come odio quelli che si ammazzano sotto il treno! Non hai idea del casino che piantano.»
«Non ne dubito, tesoro, ma pensa invece a quelli che si ammazzano con il gas e fanno crollare un intero palazzo!»
«Sì, hai ragione. Però adesso la linea è interrotta da più di un’ora, in tutte e due le direzioni. Dovresti sentire cosa dicono i viaggiatori! È inutile che sulla porta del mio ufficio ci sia scritto: vietato l’ingresso. Entrano ugualmente. È gente che deve andare a lavorare. Solo gli studenti sono felici!»
«Non credo che ci vorrà ancora tanto. La ricerca della testa, oltre a tutti i rilievi, ha portato via parecchio tempo, ma pare che sia andata perduta. Per quanto mi compete, qui non ho altro da fare. Poi in obitorio…»
«In obitorio, cosa? Non vedo che lavoro tu possa fare su un corpo in queste condizioni.»
«Tanto per cominciare dovrò accertare se fosse viva al momento dell’impatto, ma poi ci sono tante altre cose da fare.»
«Tra quanto potrò far ripartire il baraccone? A Genova stanno sclerando!»
«Senti la dottoressa Colombo e quelli della Scientifica.»
«Non ne posso più di questa vita», brontola lei.
«Non lamentarti. Pensa a tutti quelli che il lavoro l’hanno perduto e non rompere!»
«Hai ragione. Io lo dico così, per il gusto del mugugno, il fatto è che…»
Ricompare il PM.
«Il ristorante è dotato di videosorveglianza esterna», annuncia rivolgendosi a uno della Scientifica. «Bisognerà contattare i proprietari e visionare le registrazioni.»
«D’accordo», dice il barbuto annuendo.
«Vi risparmio la fatica di cercare il numero, è una mia amica», e glielo scrivo su un foglietto. Guardo l’ora e, dopo uno scambio di frasi di rito, saluto tutti. Forse Anna starà ancora dormendo. Pazienza. Mentre ripercorro in discesa la rampa d’accesso alla ferrovia, vedo due telecamere e una terza che sembra una lampada. Se la donna è passata da dove sto passando io, non l’hanno inquadrata di sicuro. Se invece avesse attraversato il sottopasso e fosse salita dal lato mare, allora qualcosa potrebbero dirci.
Mmm… Non so. Con il buio… Nel sottopasso c’è una Cinquecento bianca, forse è della vittima. Salgo a bordo del cassone e chiamo la mia amica. Finalmente un po’ di pace. Certi giorni il vento è esasperante.
«Ciao Annina, come stai?» domanda esplorativa.
«Insomma… Non mi lamento, e tu?»
Sono riuscita a precederli. «Non saprei. Siamo vicino al tuo ristorante.»
«Siamo, chi?»
«I caramba, il magistrato… tutti, insomma; ma sta’ tranquilla, da te è tutto a posto.»
«Oh meno male! E cosa ci fate allora… Ah, ho capito! Un altro s’è buttato sotto il treno!»
Le anticipo la richiesta di visionare le videoregistrazioni, ma lei mi delude subito. Dovendo rispettare le leggi sulla privacy, le telecamere sono orientate in modo da inquadrare soltanto la sua proprietà. Un passo più in là e non beccano niente.
«Accidenti!»
«Be’ dai, aspetta, non è ancora detto…» cerca di consolarmi, poi con voce un po’ affannata, come se stesse camminando, mi annuncia: «Ho finito di prepararmi. Vengo giù».
«Sì, ma aspetta che ti chiamino.»
«Okay, okay. Ma ho tanta voglia di vederti. È un po’ che latiti, lazzarona.»
«Ci vedremo una sera in privato. Adesso non posso aspettarti!»
A metà pomeriggio, in studio, la mia second life assicurativa, quella senza suspense. Bevo un caffè insieme alla mia segretaria, Doina Sadoveanu. Voglio bene a questa donna perché, dentro la scorza dura di chi ha conosciuto giorni senza speranza, ha saputo conservarla lo stesso e si è salvata. Scappata dalla Romania per sottoporre un figlio piccolo a un intervento cardiaco all’ospedale Gaslini, finiti i soldi, non ha indugiato un minuto davanti all’unica soluzione per restare in Italia il tempo della riabilitazione e dei controlli: prostituirsi. Ma come in un surreale film di Kusturica, il suo primo cliente, un vecchietto, è morto d’infarto ancora prima di cominciare, e lei nella fuga concitata ha rischiato di essere investita da un’auto di passaggio… la mia. Da allora un’amicizia
cresciuta lenta ma salda, il lavoro nel mio studio, e infine per lei l’amore, con il fido Ughetto, il mio assistente dell’obitorio. Due naufraghi che sono stati approdo e salvezza reciproca.
Le racconto la storia della donna rinvenuta sulle rotaie. Aspetta la fine del mio sfogo e poi commenta: «Il suicidio non è debolezza del carattere, non è vigliaccheria. Sai che
coraggio ci vuole a sdraiarsi su un binario? Grandissimo… Mio fratello è morto così».
«Oh Doina, scusa… avessi immaginato!»
«Che c’entra? Mica un argomento proibito. L’ho detto per farti capire che conosco. Ci sono cose scritte dentro di noi, voi dottori li chiamate cromosomi, giusto? Lì c’è tutto.
Di cosa ti ammalerai, di cosa guarirai e di cosa morirai. Il suicidio è una malattia che c’è già quando vieni al mondo. Se sei molto fortunato magari non succede, ma è difficile, perché è scritto.»
Restiamo per un po’ in silenzio.
«Quando fai l’autopsia?» mi chiede.
«Domani mattina.»
«Bene… così poi non ci penserai più.»
Ma sia io sia lei sappiamo che non sono capace di abbandonare i morti con la stessa velocità con cui si volta una pagina. E infatti questa mattina sono qui, a colloquio con i miei pensieri sulla vita e sulla morte, sulla precarietà dell’una e sulla puntualità dell’altra.
Non impiego molto a preparare i miseri resti della donna per l’ultimo viaggio. La porta della cella si chiude con un tonfo e uno sbuffo gelido. Le esequie solo dopo l’esito dell’indagine.
Ughetto, sempre taciturno, riordina la sala autoptica. Guardarlo di nascosto non m’intristisce più. Da un po’ usa l’iPod e senza accorgersene canticchia sottovoce. Mentre mi cambio mi torna in mente una raccomandazione che mi ha fatto Arturo, dopo aver ascoltato il resoconto, forse un po’ troppo enfatico, di quest’ultimo caso: «Spero
solo che tu non vada a cacciarti nei casini anche con questa
storia! Tra parentesi mi pare piuttosto chiara, o no?» ha detto.
«Certo, certo, figurati! Un banalissimo caso di suicidio! Non mi stuzzica affatto. Non devi preoccuparti a-s-s-o-l-u- t-am-e-n-t-e!» ho risposto. Ma non è vero. Qualche rovello resta. La testa che non si trova; sì d’accordo, qualche pezzo spantegato, ma senza la possibilità di una visione d’insieme. Non saprò mai se sia stato il caso a decapitarla o un abile assassino, un istante prima della ruota…
Mi riscuoto dai miei pensieri per rispondere al telefono. I minuti scorrono veloci, come accade quando l’interlocutore è affabile. Ma la dottoressa Colombo è più che affabile, è proprio simpatica.
«Il dottor Bottini mi ha parlato di lei!»
Difficile immaginare Bottini che parli di qualcuno, se non per lavoro.
«Ah, ma non si è dilungato… Ha detto che la stima, e a me basta.»
Bottini è un magistrato valtellinese di nascita e di carattere, quasi elvetico, da anni ormai a Savona. Sono felice quando un caso ci coinvolge entrambi: i nostri brain storming sono esperienze molto interessanti, fatte di intuizioni, rivelazioni
e rimbrotti.
«Dottoressa Spinola, cosa pensa della morte di Antonietta Moreno, la donna ritrovata sulla ferrovia?» mi chiede la Colombo.
«Non lo so ancora. Lo smembramento spoglia le persone della loro identità, ma poi basta un oggetto per ricostruirla: sulla mano della vittima ho trovato la fede e un anello con brillantini. Dentro la fede c’era scritto “Silvio 10-9-88”. Un particolare come questo ha il potere di restituire umanità ai resti.»
«Vero.»
«L’auto nel sottopasso era sua?»
«Sì, il libretto di circolazione era intestato a lei. Il marito, Silvio Beltrame, ne ha denunciato la scomparsa ai carabinieri pressappoco alla stessa ora del ritrovamento.» Fa una breve pausa, sento un rumore leggero, come di fogli, e riprende.
«Volevo ringraziarla: ho apprezzato la sua gentilezza di anticiparmi la perizia via mail. Una consuetudine tra lei e Bottini?»
«Sì, ma non lo faccio con tutti i magistrati, solo con quelli che mi sono simpatici.»
«Sono tanti o pochi?»
«Prima era uno, adesso siete due.»
«Mi sento onorata, grazie. Ehm», dà un lieve colpo di tosse e ritorna all’argomento: «Comunque ho letto che non ha rilevato niente di significativo sui resti».
«No. Era viva al momento dell’impatto con il locomotore e non presentava segni di legature. Gli esisti sierologici li avrà tra qualche giorno, il tempo che il laboratorio esegua i test. Il fegato, indipendentemente dai traumi riportati, non era in ottime condizioni, ma bisognerà aspettare il laboratorio per individuare la causa. Poi, come le ho scritto, il fatto che la testa sia andata distrutta non libera il campo da qualche dubbio, sebbene remoto…»
«Di che genere?»
«Be’, senza arrivare alla morte per trauma cranico di altra origine, avrebbe potuto essere soltanto priva di sensi, per esempio, e quindi non essere arrivata al binario con le sue
gambe: questo aprirebbe ben altri scenari. Ma, come le ho detto, senza una testa e un cervello da osservare non lo sapremo mai, perlomeno non attraverso la mia semplice, e aggiungo ridotta, autopsia.»
Sto un attimo zitta, mi sembra piuttosto di avere qualcosa da chiedere… Ah sì!
«Un’ultima cosa: non credo che le telecamere di sicurezza del ristorante Lo Scoglio possano esservi utili. Mi ha spiegato la mia amica Anna, la titolare, che per motivi di privacy non riprendono oltre i confini delle pertinenze del suo locale. Avete già visionato le registrazioni?»
«Sì, in una non si vede nulla se non il fascio di luce dei fari di un mezzo che si infila nel sottopasso. La seconda ha filmato il momento in cui vengono spenti, ma non ha ripreso il tipo di vettura.»
Ughetto fa capolino dalla porta e mi guarda. Significa che di là ha finito. Potremmo anche andarcene a casa. Mi accorgo di essere stanca e vorrei chiudere la baracca. Urge una scusa per salutare il magistrato.
«Dottoressa Colombo, sono sul lavoro e…»
«Ha ragione, mi scusi. Anch’io ho da fare… Ci sentiremo in un altro momento.»
«Mi saluti il dottor Bottini.»
«Non mancherò.»
E mi sa che la mia ossessione per i rovelli rimarrà a bocca asciutta questa volta.
Fonte: www.illibraio.it