L’ira funesta
Riflessioni intorno alla caffettiera volante
Quella caffettiera aveva qualcosa che non andava, non so bene cosa, anche perché fino al momento clou della faccenda, avevo continuato a giocare con la terra, tra escavazioni e pentolini. Ricordo che era estate e la porta spalancata della cucina dava sul piccolo cortiletto dove io mi trovavo, una sorta di giardino pensile come altri, in un paesetto delle Alpi Marittime costruito in verticale, stile Machu Pichu. Dalla mia postazione potevo vedere i gesti concitati, ma soprattutto sentire il tono di voce di mio padre che si alzava in modo preoccupante, e i tentativi sempre più timorosi di mia madre di calmarlo.
L’esperienza acquisita già in pochi anni di vita, mi ispirava due riflessioni: non ero io l’oggetto della sua ira funesta e il modo migliore per godere ancora della sua disattenzione era quello di non indagare. A un certo punto mio padre aveva assunto una posa plastica tipo statua di Fidia e con l’ultima roca maledizione aveva scagliato la caffettierina fuori della finestra. Dall’esterno, dove la visuale era più ampia, avevo visto la poveretta compiere un’ampia parabola e scomparire nell’abisso, in direzione del greto del Tanaro, ancora fresco di sorgente. Sotto casa nostra si estendeva una riva strappata alla montagna da generazioni d’infaticabili montanari che l’avevano terrazzata e in quelle ‘fasce’ come usiamo chiamarle, coltivavano patate, ortaggi e al tempo della mia infanzia ancora il grano. Dopo una decina di minuti di silenzio sinistro, interrotto però a sprazzi da maledizioni crepitanti come residue scariche di temporale, avevo visto spuntare mio padre il quale, senza degnarmi di uno sguardo, aveva imboccato la ripida scala di lastre di ardesia che affiancava quegli orti striminziti. La sua faccia era minacciosa. Lo avevo seguito con lo sguardo finché la vegetazione non lo aveva nascosto. La mamma era uscita a stendere, senza commentare e io non avevo fatto domande. Poi, presa da più serie problematiche di contenimento e resistenza delle mie architetture di terra e sabbia, mi ero dimenticata di tutto. Quando mio padre era risalito, ansante e sudato dalla gola del Tanaro, mi ero quasi stupita. Ah, già, sì! La caffettiera! Incredibile: era riuscito a recuperarla! La teneva tra le mani, misera e acciaccata. Tale era rimasta per anni, svolgendo il suo compito egregiamente, per il timore di fare un altro volo, o forse per l’innegabile miglioramento delle sue funzioni proprio grazie a quel volo. Mah, va a sapere…
Ho vissuto la rabbia come esempio di approccio alle difficoltà della vita e sono consapevole che sia una grande stupidaggine. La rabbia non ci arriva dalla parte più nobile del nostro cervello, quella che nel corso della storia ci ha permesso d’inventare tanta bella roba, ma da quella becera e primitiva, che condividiamo con i rettili, gli orsi e altre bestie di brutto carattere. E con Paperino. Tutti siamo Paperino quando prendiamo a calci una sedia perché ha osato frapporsi tra il nostro futuro e la nostra cresta tibiale, quando ci mancano improvvisamente gli argomenti e cominciamo a ripetere gli stessi ma a un volume più alto e stridulo, quando si rompe un elettrodomestico durante un qualcosa che avrebbe invece dovuto svolgere presto e bene perché avevamo bisogno del risultato. La pressione sanguigna sale, il battito cardiaco va di pari passo, il tono dell’umore precipita e se qualcuno osa suggerire un atteggiamento più pacato, rischia una testata sul setto nasale. Certo che, visti così siamo qualcosa più che ridicoli, siamo comici! Perché l’attacco di rabbia non manifesta al mondo la nostra forza, ma esattamente il suo contrario: la nostra fragilità e inadeguatezza nel trovare una soluzione ad un problema.
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Allora dovremmo non arrabbiarci mai?
No! Che noia! Una vita senza un po’ d’ira funesta mi fa venire in mente una cucina senza la treccia di peperoncini appesa vicino ai fornelli. Ovvio, peperoncino deve restare e non trasformarsi in esplosivo al plastico! Deve pizzicare, il giusto… E come si fa? Un buon trucco con cui imbrogliare noi stessi, può essere per esempio quello di guardarci dall’esterno. Ci salterà agli occhi l’involontaria comicità del nostro atteggiamento, che se ne va a braccetto con la nostra goffaggine. Rispondere a un’offesa con rabbia, equivale a riconoscere la superiorità del nemico, che si tratti di una lattina di pelati che non si vuole aprire o di un simpatico concittadino che ci ha appena fregato il parcheggio. Ma è così difficile veicolare la rabbia! Come forzare un torrente in piena dentro un imbuto da cantina! Proprio difficilissimo: io infatti sono e resterò del club di Paperino, però… Però ogni tanto riesco a comportarmi con flemma britannica e quelle rare volte mi sento molto, molto più intelligente! Ecco, ammirevole chi è capace di compiere una capriola narcisistica: l’alzata di sopracciglio alla Antony Hopkins è molto, molto più fascinosa della sfuriata di Fantozzi. Bisogna provare! Poi, chissà che dopo un po’ d’insuccessi, uno non la imbrocchi e arrivi perfino a provarci gusto!
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L’AUTRICE – Cristina Rava (1958) è nata e vive ad Albenga, sulla Riviera di Ponente, dove sono ambientati i suoi libri. Dopo aver iniziato gli studi in medicina ha fatto tutt’altro, lavorando nel settore dell’abbigliamento e successivamente in campagna, ma sempre con la scrittura come salvagente per galleggiare nella vita. Già autrice di due raccolte di racconti e di una memoria storica, tutte legate al territorio ligure, dal 2007 ha intrapreso la via del noir con cinque romanzi. Con Garzanti ha già pubblicato Un mare di silenzio con protagonista il medico legale «molto speciale» Ardelia Spinola. Il suo ultimo libro è Quando finiscono le ombre.
Fonte: www.illibraio.it