Sta per concludersi il mio primo anno da scrittrice (era il 14 maggio 2015 quando usciva L’imprevedibile piano della scrittrice senza nome e io, per la prima volta e con il polso gravemente ipoallenato, affrontavo una pila di copie da firmare allo stand Garzanti del Salone del Libro di Torino. Che giornata pazzesca. Me la ricorderò finché campo. Anche perché ho un sacco di foto inguardabili di quel giorno nelle quali sghignazzo senza contegno. E devo anche avere detto qualcosa di inopportuno a un paio di mostri sacri della letteratura contemporanea). Cos’ho imparato, scoperto, desunto da questo primo anno?, mi chiedono. A non dire cose inopportune in presenza di illustri personaggi no, perché l’ho rifatto anche di recente. Qualcos’altro però forse sì. Proverò a raccogliere le idee.
Tanto per cominciare, ho scoperto che uno scrittore deve imparare a fare un sacco di cose che hanno molto poco a che vedere con la scrittura. Non è un male, eh, anzi. E’ un po’ come quando cominci un nuovo lavoro: ti hanno assunto per le competenze che hai coltivato per anni, ma appena varcata la soglia della nuova azienda devi sviluppare in fretta anche un sacco di abilità extra: devi imparare a usare la fotocopiatrice, a nascondere gli snack dal collega scroccone, a monitorare la soglia dell’attenzione del tuo capo quando gli parli, e così via. Per me, in termini pratici, avere pubblicato un libro con una grossa casa editrice ha significato soprattutto essere chiamata a tenere presentazioni in giro per l’Italia, quindi le competenze collaterali che ho dovuto spicciarmi a sviluppare sono state soprattutto parlare in pubblico e viaggiare senza perdermi. Io di natura sono timida e parlo velocissimo. Con “velocissimo” intendo abbastanza da meritarmi a sedici anni il soprannome di Kalashnikov. In più, ho un senso dell’orientamento raccapricciante. Quest’anno, dai e dai, ho imparato a fare cabaret e a girare l’Italia con il solo ausilio di un navigatore che perde la linea ogni otto metri e una compilation di Springsteen. Se me l’avessero pronosticato un anno e un giorno fa, sarei scoppiata a ridere e l’avrei archiviato alla voce “fantascienza”.
Un’altra cosa che ho capito molto bene è che da scrittore tu entri a far parte di un grande gioco di squadra. Mi stupisco sempre di quanto sia radicata l’idea che fare lo scrittore sia lo sport solitario per eccellenza, che il “vero” romanziere sia una specie di outsider che non deve rendere conto di niente a nessuno. Varrà anche finché scrivi nel chiuso della tua casa, per te stesso e con te stesso e basta, ma appena ti pubblicano ti accorgi che attorno a te lavorano un sacco di persone e che, se tu non fai la tua parte in un certo modo, il lavoro di tutte ne risente.
In realtà lavorando da editor e osservando gli scrittori dall’altro lato della scrivania mi era già chiaro che uno scrittore avesse dei doveri, delle responsabilità: verso i suoi editori, per esempio, verso la redazione, verso l’ufficio stampa che fa del suo meglio per promuoverlo e così via. La cosa interessante è adesso ci ho messo dentro anche una categoria con cui prima ero entrata in contatto relativamente poco, e cioè quella dei librai. In questi dodici mesi ho conosciuto tantissimi librai, librai indipendenti, librai di catena, librai fondatori di librerie, librai eredi di librerie, commessi di libreria, eccetera eccetera. Mediamente, posso testimoniare che si tratta di gente 1) motivatissima, che lo fa per autentica passione 2) anche perché se aspetta di diventare ricca vendendo libri sta fresca. Quando un libraio di questi ti invita a tenere una presentazione significa che ci investe, che dedica del tempo e dei soldi all’organizzazione, alla creazione di locandina e volantini, che ne parla ai clienti e consiglia in giro il tuo libro. Poi arrivi tu, scrittore… e se non ti sei preparato nulla d’interessante da dire? O se magari l’hai fatto ma non è abbastanza interessante lo stesso? La gente potrebbe iniziare a pensare che se è così che parli non vale la pena spendere dei soldi per vedere anche come scrivi, e l’evento può finire con la sala semideserta perché nel frattempo si sono fatte le sette e sono tornati tutti a casa a cucinare, e il libraio magari ti sorriderà facendo finta di niente, perché è educato, e ti dirà: “Be’, dai, adesso ti offro la cena”. Pure. Come potrai mai sentirti? Uno schifo, chiaro. La sola ipotesi che le cose possano andare così ti agghiaccia. Così, semplicemente, fai di tutto, ma proprio di tutto, perché questo non accada. Vai alle presentazioni e le affronti come uno stand-up comedian allo spettacolo della vita, e se la gente alla fine se ne va felice e col tuo libro sotto il braccio, più magari qualche altro libro ancora, e l’aria di voler tornare anche al prossimo evento, tu sei una pasqua e con il libraio ti scappa d’istinto da batterci un cinque. Il punto è che senti di avere combattuto per una causa comune, ecco. Non solo per evitare una figuraccia a te stesso. Hai fatto la tua parte per non rovinare tutto a qualcuno che ha creduto in te. E, come dicevo, è la stessa sensazione che hai nei confronti dell’editore che ha investito su di te, degli editor che si sono sorbiti la rilettura del tuo libro sei volte, della blogger che si è spesa a recensirti con entusiasmo, del bibliotecario che ha affrontato muraglie di burocrazia per ospitarti.
Insomma: è buffo, ma quest’anno ho scoperto che una delle professioni apparentemente più solitarie del mondo alla fine ti fa sentire più che mai il membro di una rete, di una comunità.
Infine ho scoperto che non puoi fare lo scrittore senza darti una mossa e, anche se sei l’Anticristo della Tecnologia, il Lucifero del Digital Divide, e vivi a Mordor, Dove Internet Smette Di Funzionare Se Piove, abituarti almeno un po’ a usare i social. Io un anno fa avevo trenta amici a dir tanto, su Facebook. Giuro. To’, quaranta. Lo usavo per scrivere qualche scemenza ogni tot giusto per tenermi in allenamento, e per aggiornare e aggiornarmi sui concerti del mio giro di band. In sei mesi sono arrivata a seicento e adesso a circa milletrecento. Non sono certo numeri stratosferici, tanti ne hanno molti di più senza bisogno di fare gli scrittori, ma per me è stato abbastanza stralunante accorgermi che fra i lettori delle mie sciocchezze quotidiane il numero degli sconosciuti superava, poi doppiava, poi stracciava, il numero delle mie conoscenze de visu.
Ho questo flash: me e una mia amica, antitecnologa quanto me, a passeggio in un parco un annetto e mezzo fa, che parliamo del rintronamento da Facebook che ha colto alcune delle nostre conoscenze e dichiariamo sdegnose: “Io non concepisco che si possa avere fra gli ‘amici’ qualcuno di cui non si è amici di persona”. Nella mia esperienza, lo snobismo da Facebook ti passa in due fasi: la prima è quando ti rendi conto che c’è un ufficio stampa che sgobba come un pazzo per procurarti visibilità e ti viene in mente che forse sarebbe carino da parte tua dargli una mano, visto che dopotutto lo sta facendo per te. La seconda è quando iniziano ad arrivarti i primi messaggi privati dai lettori. Che hanno apprezzato il tuo libro e non si sono limitati a pensare “bello”, riporlo sullo scaffale e uscire a spasso col cane: hanno pensato “bello”, si sono messi al computer e hanno cercato il modo di contattarti, per dire a te, proprio a te personalmente, quel “bello” che non erano mica costretti a condividere. Già questo gesto rappresenta qualcosa di eclatante. Lo sai che sono cose che possono succedere, ma quando iniziano a succedere a te ti senti come miracolato.
Ma non è finita qui: c’è il fatto che, nel novanta per cento dei casi, il lettore che ti scrive non si limita al summenzionato “bello”: ti racconta di sé, di come è venuto a contatto con il tuo libro, di cosa esattamente ci ha trovato e del perché proprio quella cosa lì ha avuto senso per lui. (Fra l’altro, il restante dieci per cento, quello che si limita al “bello” o poco più, in genere scopri che è soltanto timido.) Ed ecco che smetti di colpo di fare la distinzione fra “amici virtuali” e “amici in carne e ossa”, ti rendi conto che dopotutto questo famigerato Facebook-del-diavolo è solo un altro canale per entrare in contatto con persone vere, con le loro voci e i loro gusti e il loro senso dell’umorismo, e inizi a pensare di essere molto fortunato a vivere in un’èra di diavolerie come quella.
Sì, be’, poi c’è Twitter, che ho aperto per senso del dovere ma non ho mai imparato a usare bene. Aehm. Magari il prossimo anno.
Vabbè, insomma. Il punto è che se sta per uscire il vostro libro mi sa che fate bene a prepararvi. La realtà sta per spalancare la porta della vostra camera con un calcio secco che manco nei western i pistoleri quando fanno irruzione nei saloon. Sarà impegnativo e responsabilizzante e destabilizzante, ma anche divertente, pieno di sorprese, di scoperte e di esperienze.
Così avrete un sacco di cose da scrivere nel vostro secondo libro.
(nota: la foto di Alice Passo è di Yuma Martellanz)
L’AUTRICE – Alice Basso è nata nel 1979 a Milano e ora vive in un ridente borgo medievale fuori Torino. Lavora per diverse case editrici come redattrice, traduttrice, valutatrice di proposte editoriali. Nel tempo libero finge di avere ancora vent’anni canta e scrive canzoni per un paio di rock band. Suona il sassofono, ama disegnare, cucina male, guida ancora peggio e di sport nemmeno a parlarne. Con Garzanti ha pubblicato L’imprevedibile piano della scrittrice senza nome. Ora arriva in libreria il suo secondo romanzo, Scrivere è un mestiere pericoloso.
Anche Alice Basso sarà protagonista nello stand de ilLibraio.it al Salone del libro di Torino: qui il programma completo
Fonte: www.illibraio.it