Perché (ri)leggere “Eleanor Oliphant sta benissimo” di Gail Honeyman

di Francesca Cingoli | 14.06.2024

Ci abituiamo al buio: una poesia di Emily Dickison parla delle notti dell’anima, che ci svelano chi siamo:

“o si altera la tenebra
o in qualche modo si abitua la vista
alla notte profonda,
e la vita cammina quasi dritta”.

Nei “bei giorni”, la vita di Eleanor Oliphant cammina dritta, anzi drittissima: back office in uno studio di graphic design, un appartamentino, la sua è una routine normale e per questo apprezzabile. Eleanor ha le sue eccentricità, un modo tutto suo di interpretare il mondo, non privo di giudizi, senza filtri, che la fanno sembrare strana, e ha il volto segnato da una cicatrice che attira gli sguardi, ma nel complesso ha un aspetto ordinato e ordinario.

Sono sempre stata orgogliosa di cavarmela da sola nella vita. Sono l’unica sopravvissuta, sono Eleanor Oliphant. Non ho bisogno di nessun altro: non c’è una grande voragine nella mia esistenza, nel mio puzzle privato non manca alcun tassello. Sono un’entità autosufficiente”.

“La vita mi sorrideva”: una giornata di sole, una camminata, la sua pianta Polly da curare, i colleghi da ascoltare, basta poco a Eleanor per godere della rotondità del suo tempo.

Poi la sera rientra a casa e la porta si chiude alle sue spalle, e lei si trova sopravvissuta, sola con il suo buio, con una voragine che finge di ignorare, ma c’è, ed è profonda. La pizza del venerdì, la vodka del weekend sono modi per annullare il tempo con se stessa, azioni sempre uguali per trovare conforto. Stordirsi di alcol è una soluzione temporanea per non spezzarsi, per permetterle di abituarsi al buio, di continuare a muoversi dentro le sue mura e i suoi oggetti, per arrivare al lunedì, riaprire la porta e ritrovare il mondo delle poche abitudini, in una medietà che la rassicura.

“Il buio è dove accadono le cose brutte”.

Eleanor si è abituata al buio, non c’è nessuna luce a farle chiarezza: se fuori può tenere la testa alta, occupando il suo posto nel mondo, in casa la solitudine le aderisce addosso, è una notte profonda, insieme a una sensazione di ansia che satura lo spazio, le visite dell’assistente sociale, e poi il terrore familiare del mercoledì sera. È allora che arriva la telefonata del male, la voce della madre che la riporta all’infanzia, al buio, al dolore insopportabile di un baratro in cui è sprofondata. Quella voce è un’ossessione di colpa, una malvagità sadica che la spinge giù, la fa sentire inutile e danneggiata, un avanzo.

Annichilita, ha solo la possibilità di rifugiarsi in un luogo bianco della mente, che sa di cotone pulito e di musica dolcissima.

Eleanor Oliphant sta benissimo di Gail Honeyman (Garzanti, traduzione di Stefano Beretta) è stato un successo mondiale, un inno all’autenticità che continua a mantenere la sua potenza, anche nella rilettura.

Cosa vuol dire stare bene? Eleanor sembra tenere tutto sotto controllo, nel suo tunnel di solitudine, ma si capisce presto che la sua è un’armatura che nasconde una delicatezza fragile. Lei, che prova pena per i belli, e non capisce le dinamiche della vita sociale, vive all’oscuro delle convenzioni che sostengono la nostra “normalità”, imprigionata e protetta nel suo strato di solitudine.

“A quanto pareva, non esisteva uno spazio sociale a forma di Eleanor in cui potermi infilare”.

Basta un piccolo spiraglio di luce per farci accorgere del buio nel quale stiamo: per Eleanor bastano due episodi, all’apparenza semplici, ma così deflagranti da indurla a prendere in mano la sua vita, di accogliere anche la possibilità di essere ascoltata e amata.

L’amicizia con Raymond dell’helpdesk è una sorpresa: un ragazzotto poco avvenente, privo di raffinatezza, modesto nell’aspetto e nella conversazione, si rivela essere la mano tesa a salvare Eleanor da se stessa.

Perché il grigiore di Raymond è quello da cui nascono l’affetto, il sostegno, e l’ascolto, raggi di luce che fanno sentire Eleanor per una volta diversa, scaldata dal calore, una sensazione piacevole e radiosa, nuova e rivelatrice di una possibilità di cambiamento. Insieme a lui, Eleanor fa piccoli passi nella vita, incontra nuova gente, lei stessa compie gesti di attenzione, piccole avventure che aprono varchi.

Eleanor Oliphant sta benissimo Gail Honeyman

“Meriti di avere cose graziose”: sono parole che Eleanor mai avrebbe pensato di sentirsi dire.

C’è una semplicità che è in grado di riparare i giorni brutti, di renderli migliori. Può essere anche quella di un amore immaginario, un cantante che si è visto da lontano, un sogno più adatto a un’adolescenza, che Eleanor non ha vissuto, per permettere a se stessa di creare la fantasia a colori di un futuro possibile, di pensare di stare bene, di iniziare a occuparsi di sé. Poi se il sogno si infrange, lascia la verità: fa entrare la luce, che all’inizio è accecante e fa male agli occhi, e mostra tutte le pecche, le cicatrici, le macchie nell’animo. Ma indica anche una strada nuova da percorrere.

“A volte basta soltanto una persona gentile seduta al tuo fianco mentre affronti le cose”.

La Honeyman, con l’andamento di un thriller e la complessità di un’indagine umana, ci fa vedere la tortuosità del nostro essere, le mille buche che ci sono nel nostro percorso, gli strati del passato che ci rendono quello che siamo. E soprattutto ci mette davanti al dono della connessione umana, all’importanza di essere visti per capire che c’è la possibilità di uscire dall’ombra, abbandonando i demoni che ci tengono al chiuso.

Certo, siamo tutti affascinati dall’eroicità nera di Eleanor Oliphant, dalla violenza del suo segreto, dalla forza della sua rinascita, con un sentimento scuro che ci fa apparire più affascinante la tragedia. Rileggere Eleanor Oliphant sta benissimo fa restituire tutta la forza da protagonista di Raymond: guardiamolo, guardiamolo bene, questo ragazzo comune, capace di gesti piccoli e insignificanti, e per questo rivoluzionari.

Impariamo da lui, perché è lui il vero eroe: impariamo a compiere gesti di rispetto. Noi, che non abbiamo il nero della voragine di Eleanor, viviamo il grigiore ordinario di Raymond, e abbiamo la responsabilità della gentilezza: è quella la stra-ordinarietà di atti di bellezza che ci fanno avvicinare, guarire con poco dal cancro della solitudine e sentire umani.

“Era bello notare i dettagli. Piccole schegge di vita: si sommavano e mi aiutavano a sentire che anch’io potevo essere un frammento, un pezzetto di umanità che riempiva utilmente uno spazio, per quanto minuscolo”.

Fonte: www.illibraio.it