Un evento editoriale. Claudio Magris torna al romanzo dopo quasi dieci anni (l’ultimo era stato Lei dunque capirà, nel 2006) e lo fa con Non luogo a procedere, in libreria per Garzanti.
Un testo allo stesso tempo violento, tenero e appassionato, sull’ossessione della guerra di ogni tempo e paese, quasi indistinguibile dalla vita stessa: un professore anziano vuole creare un Museo della Guerra e Luisa è chiamata a ordinare l’enorme quantità di materiali che il vecchio ha raccolto nella sua vita.
Sullo sfondo di questa vicenda “particolare”, la storia “universale” con la Seconda Guerra Mondiale, l’occupazione nazista, il dramma degli internati nella Risiera di San Sabba e quello degli ebrei.
L’autore triestino, classe ’39, docente universitario, saggista, collaboratore del Corriere della Sera, scava così nell’inferno della guerra per riportare a galla le colpe che non abbiamo mai affrontato.
Tra le sue opere, Danubio (1986), Microcosmi (1997, Premio Strega), Alla cieca (2004), L’infinito viaggiare (2005) e La storia non è finita (2006).
Su ilLibraio.it il terzo capitolo del libro (per gentile concessione di Garzanti):
Capitolo 3
Forse – solo una mera illazione, certo – nel rogo del suo capannone erano finiti bruciati, invano ben nascosti chissà dove, pure quei brogliacci che agitavano tanto i suoi eredi, e non solo loro, e che stranamente erano gli unici, fra i suoi innumerevoli taccuini, a essere spariti; quelle carte in cui si diceva avesse annotato le scritte tracciate sui muri e nei cessi della loro prigione dai detenuti prossimi a morire, anch’essi in un rogo, nel forno crematorio nazista della Risiera, l’unico in Italia, proprio a Trieste.
Su quei muri e sugli ipotizzati nomi scritti su quei muri era stata poi data, in tranquilli tempi di pace, una mano di calce.
Dopo la guerra, viene la pace, che ha pure il bianco colore del sepolcro e dei sepolcri imbiancati nel cuore.
Lui però, prima, pare le avesse viste e ricopiate, quelle scritte, almeno alcune; anche quei nomi, si mormorava, nomi abietti e altolocati di collaborazionisti o comunque buoni amici dei boia, incisi sui muri delle luride latrine dalle vittime sulla soglia della morte e poi cancellati dalla calce – calce viva, bianca, innocente e bruciante sulla carne viva – e poi cancellati forse un’altra volta ancora dall’incendio nel suo capannone, da un fuoco distruttore che ripuliva ogni sozzura e restituiva una falsa innocenza alla più sordida e immonda infamia, a miserabili protetti per sempre dalla sparizione dei loro nomi dissolti nella calce e polverizzati nella cenere, illeggibili per i giudici umani, come quel magistrato che aveva dovuto concludere l’indagine sui crimini della Risiera quasi con un nulla di fatto; illeggibili forse pure per giudici più alti, anch’essi derubati di ogni materiale di prova e certo illeggibili per i figli di quegli assassini contumaci, ignari che quei loro nomi erano stati a suo tempo corrosi dalla calce o accartocciati dal fuoco; fieri anzi di portare quei nomi rispettabili e dei loro padri che li avevano portati anche quando le vittime – che essi avevano forse spinto o anche solo visto andare a una morte atroce e la cui sorte comunque non aveva turbato la loro indifferenza – li avevano scritti sui muri.
Nomi cancellati e dunque onorati per sempre.
Non era comunque male, pensava Luisa, che qualcuno – a giudicare dalla lettera al giornale e anche dalle dichiarazioni del vicepresidente della Fondazione, dott. Pezzl – potesse credere o temere che qualcosa di quelle carte pericolose fosse ancora in giro.
Meglio così, timor Domini initium sapientiae.
Di quell’obbrobrio, di quella vecchia fabbrica di riso triestina dove i nazisti avevano massacrato o mandato al massacro qualche migliaio di persone, nel silenzio generale protrattosi anche dopo la fine della guerra, si cominciava finalmente a parlare, fra l’imbarazzo di molti. Ed era in parte merito pure dell’accanimento di quell’uomo singolare, delle sue ricerche maniacali ma in quel caso illuminate dal furore del profeta adirato col suo popolo infame e desideroso di mettere a nudo l’infamia.
Il dott. Pezzl, replicando a uno dei numerosi interventi sul «Corriere Adriatico», aveva scritto per esempio che «non è forse il caso di dare notizia di questi diari prima che essi, o quanto di essi eventualmente rimane, siano catalogati e classificati e prima di aver soppesato l’eventuale opportunità di desecretare alcuni brani di argomento delicato, che forse sarebbe stato ancora troppo presto…».
Troppo presto per chi? Semmai troppo tardi; almeno per lui, passato a miglior vita – cosa non difficile, visto come era vissuto, anche se per lui forse invece… – troppo tardi in ogni caso per gli altri, che in tutti quegli anni avevano avuto il tempo di lavarsi le mani sporche di sangue o del sudiciume di quelle altre mani ancor più sporche di sangue, che durante l’occupazione nazista avevano stretto tante volte così cordialmente. Troppo tardi, poi, perché dopo tanti anni anche loro, con i loro nomi imbiancati sui muri della Risiera o bruciati in quella notte nel capannone, erano andati all’altro mondo, almeno molti di loro; non dovevano essere bambini neanche allora, negli ultimi mesi di guerra, e quindi adesso la pena di morte probabilmente l’avevano già avuta, colpevoli o innocenti che fossero.
La giustizia, almeno la giustizia capitale, è uguale per tutti.
L’APPUNTAMENTO – In occasione di Bookcity, domenica 25 ottobre alle 21 presso il Teatro Franco Parenti, Claudio Magris dialogherà con Ferruccio De Bortoli.
Fonte: www.illibraio.it