Ava è una ragazza solare, che ama il teatro, il canto e i musical di Broadway. La sua vita cambia a sedici anni, quando un incendio divora la casa in cui abita, lasciandola unica superstite. È sopravvissuta, ma non è rimasta illesa: prima che la storia inizi Ava subisce un coma farmacologico, numerosi interventi, dolori fisici e psicologici: ma di questo sappiamo solo da alcuni frammenti dei suoi ricordi, scritti come piccole poesie sul quaderno in cui descrive la sua guarigione.
In Io sono Ava di Erin Stewart (tradotto da Silvia Cavenaghi per Garzanti) conosciamo la protagonista all’inizio della sua nuova vita, quella con cicatrici che segnano il sessanta percento del suo corpo. L’incendio ruba ad Ava l’aspetto in cui si era sempre riconosciuta e le proprie radici, fisiche e familiari. Da qui inizia il suo percorso di guarigione, più mentale che fisico, attraverso il ricongiungimento con un’identità che sembra essere stata persa tra le fiamme.
Quando è il momento di rientrare a scuola il suo aspetto sembra un ostacolo: Ava, però, scopre con il tempo che non è una questione di canoni di bellezza in cui crede di non rientrare, ma del guardarsi allo specchio e non riconoscere ciò che era, e che ancora è, al di là delle cicatrici. Lo sguardo è ciò che Ava rimpiange di più: le mancano le ciglia e la pelle intorno agli occhi non è più la stessa, ma l’espressione che le manca non torna neanche con l’intervento ricostruttivo. Come le farà notare suo zio, i suoi occhi tornano quelli di prima solo quando Ava riesce ad emozionarsi di nuovo: “Assomigli a tua madre (…) aveva gli occhi pieni di vita. Stasera hai lo stesso sguardo…”, le dice.
Fondamentale nella guarigione di Ava non è solamente il riconoscimento sociale, che ritrova nell’amicizia con Piper e Asad, che a loro modo condividono con lei una lotta verso lo stigma della diversità ma, soprattutto il riavvicinamento alle sue passioni, il canto e il teatro, che le permettono di sentirsi di nuovo viva. Sul palco Ava si sente di nuovo parte di qualcosa, e si rende conto che la più grande barriera tra lei e il mondo era stata creata dalla paura, di se stessa e degli altri, e dall’aver creduto di non meritarsi di essere ancora viva quando chi ama non lo è più.
L’appuntamento in libreria
“Di certo l’incendio è stato meticoloso; si è preso tutta mamma, anche quei tratti che mi aveva trasmesso”, dice Ava guardandosi allo specchio e non trovando più i lineamenti nei quali riconosceva le sue origini. Guarire per Ava significa ritrovare il proprio posto, rendendosi conto che una famiglia c’è ancora, così come una casa e una personalità che la rende unica.
La protagonista di Io sono Ava (che inaugura la nuova collana di narrativa per ragazzi Libri ribelli, pensata per gli adolescenti, ma i cui temi possono interessare anche gli adulti) non è il primo personaggio letterario caratterizzato dalle cicatrici o da una diversità fisica che ne definisce l’aspetto: insieme a Harry Potter e a Auggie (protagonista di Wonder, di R. J. Palacio, edito da Giunti), è però tra i pochi ad avere un ruolo positivo nella trama. Pensando ai grandi cattivi della narrazione ci imbattiamo infatti in numerosi personaggi segnati dalle cicatrici, soprattutto se pensiamo al mondo cinematografico: Darth Vader e Joker sono tra i più famosi, per non parlare di Scarface e Scar de Il re leone, i cui nomi derivano proprio dal termine che in inglese traduce “cicatrice”. A lungo le diversità fisiche sono state collegate alla malvagità dei personaggi, riflettendo (e forse consolidando) le discriminazioni sociali della diversità fisica.
L’ambiente che per primo è stato capace di veicolare un messaggio diverso è stato probabilmente lo sport, che tramite storie di sopravvivenza ha insegnato che le cicatrici possono essere metafora di vittoria invece che un marchio di stigmatizzazione. Personaggi come Niki Lauda, Alex Zanardi e più recentemente Bebe Vio sono stati capaci di mostrare come la diversità potesse essere valorizzata come simbolo della propria esperienza di vita, piuttosto che rappresentare un segno di sconfitta o di vergogna.
Le narrazioni cambiano con i tempi, e oggi storie come quella di Ava ci permettono di capire che non bisogna definire qualcuno in base alle sue cicatrici, perché deve essere la persona in questione a decidere come quelle cicatrici debbano definirlo. Sulla stessa linea si è posizionato per esempio anche il British Film Institute, che nel 2018 ha preso la decisione di non finanziare più i film in cui l’antagonista è reso riconoscibile dalle cicatrici. Una scelta fatta nella speranza di allontanare il mondo cinematografico, spesso ancora portatore del messaggio che un buon protagonista debba anche essere bello, dalla cultura del body shaming.
Quando Ava decide di recarsi da un tatuatore, lui è sorpreso dalla sua decisione: le persone si tatuano per raccontare se stesse tramite le immagini, ma lei non ha bisogno di farlo, perché le sue cicatrici assolvono già a quel compito. Come scriveva Cormac McCarthy in Cavalli selvaggi, “le cicatrici hanno lo strano potere di ricordarci che il nostro passato è reale”; l’equilibrio con cui dovrà convivere Ava è quindi sottile: essere consapevole che il suo passato è molto più dell’incendio, ma allo stesso tempo che le cicatrici non sono qualcosa da nascondere.
In Io sono Ava la cicatrice diventa metanarratrice di una trama da cui il personaggio che la porta è uscito vincitore e rappresenta la capacità di andare oltre senza dimenticare, di crescere con la consapevolezza che le ferite rappresentano una sfida superata, un evento tragico da cui si è sopravvissuti ma che non va ricordato con passività.
Fonte: www.illibraio.it