“Le persone creative sono insopportabili: lo dice la scienza. Ma..” – di Alice Basso

di Alice Basso | 30.06.2024

Ve lo dico subito: non stiamo per fare gossip. Non stiamo per parlare della vostra amica che ha mollato il fidanzato musicista perché era inaffidabile, sempre con la testa fra le nuvole, dimenticava la bambina a scuola e la pentola sul fuoco ed era pure assediato dalle groupie, che stress. Non stiamo neanche per fare il contrario, ossia per incensare i pazienti consorti di scrittori o artisti, i santi abituati a gridare “È pronto!” dalla cucina, a sentirsi rispondere “Arrivo” dallo studio solo dopo il sesto richiamo e a vedere effettivamente apparire il coniuge dopo quei minimo venti minuti indispensabili perché il pasto cucinato con amore si sia nel frattempo ridotto alla fredda scultura commemorativa di sé stesso. No.

Qui stiamo per parlare di scienza.

Qualche giorno fa sto spulciando articoli di neuroscienze (una volta poi vi spiego anche perché) e incappo in un saggio dal titolo promettente: Are Creative People Better than Others at Recognizing Creative Work? [“Le persone creative sono migliori delle altre nel riconoscere i lavori creativi?”], pubblicato sul sito della National Library of Medicine degli Stati Uniti.

L’articolo prende spunto da un tema popolare, di costume, ossia la composizione della giuria dei talent show, per chiedersi cos’è che renda un individuo qualificato per giudicare la creatività di un altro.

L’opinione più diffusa è che ci vorrebbe un artista per riconoscere e valutare a dovere un altro artista, giusto? Ma c’è anche chi dice che a volte i migliori impresari hanno solo fiuto e pochissima attitudine artistica personale, o che dopotutto certa arte popolare è destinata in primis, appunto, al grande pubblico, quindi deve “parlare” alle persone indipendentemente dal loro avere o meno gli strumenti tecnici per penetrare i segreti dell’arte in questione (non fate caso a me che annuisco come un picchio ricordando orrendi colpi di sonno durante certi magistrali assoli di cool jazz o davanti a geniali quadri d’arte moderna).

Incuriosita, vado avanti a leggere e inizio a scoprire delle cose inquietanti. Decisamente inquietanti. Sui test e gli esperimenti che sono stati fatti su un campione di creativi per scoprire come giudicano l’arte propria e altrui. Ora arriviamo ai risultati, ma aspettate ancora un momento, perché prima devo dirvi che, agghiacciata dai risultati in questione, nel frattempo ho cercato anche altri studi sul cervello creativo, e sono approdata a un secondo saggio, The Science behind Creativity, pubblicato sul sito della American Psychological Association, che di risultati su questioni analoghe ne forniva di ulteriori e di complementari.

Ora.

Per il bene di tutti, adesso vi sparo una carrellata dei risultati dell’uno e dell’altro articolo, più quelli di altri trovati nella bibliografia dei suddetti, e se vi considerate delle menti creative tenete a portata di mano del Lasonil, perché farà male.

  • I creativi non è affatto detto che sappiano giudicare il lavoro creativo altrui. Non sono affatto più bravi degli altri nel riconoscere la migliore in una rosa di opere d’ingegno, nel senso che non hanno nessuna capacità innata di concordare su quale sia destinata a un maggior successo nel presente e nel lungo periodo, a lasciare più il segno, a costituire un passo avanti nell’evoluzione dell’arte di riferimento. È normale, dite voi? Ritenete che sopra un certo limite di eccellenza sia impossibile, forse anche insensato, decidere se siano “meglio” La Gioconda o La scuola di Atene, Taylor Swift o Beyoncé, i tagliolini ai profumi di mare di Chef Maurice Baffeau o di Chef Alfred Pentolon? Io concordo con voi. Io. Loro no. Loro litigano perché, suvvia!, Chef Baffeau è incomparabilmente meglio di quel pezzente di Pentolon che tanto varrebbe che andasse a fare torte di fango con le formine del mare!, eccetera eccetera.
  • Però sono perfidi. In compenso, non esitano a identificare quella che secondo loro è l’opera peggiore. Leggiamo fra le righe: vanno a gusti, come tutti, ma quando beccano quello che proprio non gli piace gli puntano il dito contro senza trattenersi un istante. E in quel caso, in quello sì!, tendono anche a fare fronte comune, si lasciano convincere, amano odiare. Tutti uniti contro l’ultima ruota del carro: che bulli.
  • Peggio: sono proprio un po’ degli esaltati. I creativi tendono a sopravvalutare i loro cosiddetti aha-moments (noi forse li chiameremmo “momenti eureka”), cioè le ideone che ogni tanto gli s’accendono in testa come le lampadine dei fumetti. Idee che magari sono solo mediamente brillanti, o neanche così originali, ma che a loro – questionario di autovalutazione alla mano – sembrano pazzesche, rivoluzionarie, le più dirompenti di sempre, e-adesso-scusatemi-che-devo-fare-la-valigia-per-andare-a-ritirare-il-Nobel.
  • …E a sottovalutare o denigrare le ideone altrui. Perché chi credete che siano i primi a sminuire, ridimensionare, criticare l’ideona di un creativo? I suoi simili, naturalmente.
  • Infine, nel caso steste attaccandovi a questa flebile speranza, sappiate che nulla di tutto ciò è in alcun modo dipendente dal successo personale del creativo. Che tu sia un artista riconosciuto, così apprezzato nel proprio settore da essersi verosimilmente montato la testa, o che tu sia un misconosciuto scrittore che ancora lotta per far uscire il proprio manoscritto dal cassetto, la tendenza a esaltare il tuo lavoro a scapito di quello degli altri l’avrai comunque, al massimo sarai abbastanza accorto da non sbandierarla e farti prendere a pernacchie.

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Ragazzi, guardiamo in faccia la realtà: lo dice la scienza. Io credo nella scienza. Quindi dev’essere tutto vero. So anche che gli studi tirano le fila, riportano le statistiche, il comportamento della maggioranza, che la maggioranza non è la totalità e che c’è sempre la possibilità dignitosa di rientrare nella minoranza dei creativi che non siano anche orrende persone tronfie ed egoriferite. Io stessa credo di conoscere diversi esemplari di entrambe le categorie. Dall’aspirante autore che scrive recensioni livorose a libri di successo internazionale, dando esplicitamente delle mentecatte alle decine di migliaia di persone che in quel libro invece hanno trovato qualcosa, e che sostiene che se lui non ha ancora ottenuto un contratto e un successo analoghi è solo perché “l’editoria è marcia, e io non vengo capito”, fino all’autore amatissimo che ha bisogno delle rassicurazioni dell’editor perché non è mai sicuro di aver fatto un lavoro abbastanza buono.

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Ecco: secondo me in questi studi manca la fragilità, l‘insicurezza della creatività. Dove cavolo li hanno trovati tutti questi creativi così granitici?! Dov’è la vergogna? Dove sono gli attacchi periodici di sindrome dell’impostore? Il desiderio di strappare il tuo quadro dalle mani del tizio che lo sta fotografando perché devi assolutamente rifare i dettagli dello sfondo che di colpo ti sembrano scarabocchiati da un bambino di tre anni? Lo svegliarti di notte in preda alla sensazione, no, alla certezza, di avere mandato in pubblicazione un libro orribile, orribile!, di cui nessuno sentiva il bisogno tranne te e che semplicemente non potrà piacere a nessuno? (Vedo delle mani alzate e qualcuno che singhiozza: “Io! Sono io!”. Amico, ci vediamo giovedì pomeriggio al Gruppo di Auto-mutuo Aiuto per Creativi con Sensi di Colpa, ti tengo il posto vicino al mio accanto alla finestra.)

L’unica cosa che mi viene da dire, anzi le uniche due, sono le seguenti: che, anche se fosse vero che i creativi sono insopportabili, toccherebbe comunque farsene una ragione, perché tanto senza creativi non possiamo stare.

Riuscite a immaginare un mondo senza storie, senza musica, senza arte, senza invenzione? E poi che, be’, visto quanto può essere insopportabile un creativo per gli altri, meglio allora essere un creativo che essere un altro. Cioè: a questo punto, meglio essere noi i creativi. Almeno potremo bearci di quei rush di adrenalina e dopamina, di quegli aha-moments, delle nostre sicurezze assolute nel giudicare gli altri, dell’incrollabile convinzione di essere i migliori. Col beneplacito della scienza.

 

alice basso una festa in nero

L’AUTRICE E IL NUOVO ROMANZO  – Alice Basso è nata nel 1979 a Milano e ora vive in un ridente borgo medievale fuori Torino. Lavora per diverse case editrici. Con Garzanti ha pubblicato le avventure della ghostwriter Vani SarcaL’imprevedibile piano della scrittrice senza nomeScrivere è un mestiere pericoloso, Non ditelo allo scrittoreLa scrittrice del mistero e Un caso speciale per la ghostwriter.

Nel 2020 è uscito Il morso della vipera, il primo capitolo di una nuova serie ambientata nell’Italia degli anni ’30, con protagonista il personaggio di Anita, e nel 2021 è stata la volta de Il grido della rosa. Nel 2022 è poi uscita una nuova avventura della stessa serie, Una stella senza luce, e nel 2023 è stata la volta di Le aquile della notte, con un ritorno di Anita e degli anni ’30.

E veniamo al suo nuovo romanzo, Una festa in nero. Siamo nella Torino del 1935: i fari della Balilla Spider Sport fendono il buio della notte. Il fatto che alla guida ci sia una donna potrebbe sembrare strano per l’epoca, ma non per Anita. Sono mesi, infatti, che fa cose non proprio consone a una donna, per non dire disdicevoli, sicuramente proibite. Come rimandare il matrimonio con Corrado solo per la voglia di provare a lavorare. Come scrivere, sotto lo pseudonimo di JD Smith, racconti gialli ispirati a fatti di cronaca per portare un po’ di giustizia dove ormai non esiste più. Un segreto che condivide con Sebastiano Satta Ascona, editore della rivista Saturnalia. E per essere sinceri scrivere non è l’unica cosa proibita che fanno insieme. Ma ora qualcosa è cambiato, per quello Anita si trova su quella macchina. Ora qualcuno ha iniziato a seguirli. Ora c’è un impermeabile beige sempre un passo dietro di loro. E con le spie non si può scherzare. Non ci si può fermare troppo a parlare, a volte bisogna solo fare quello che chiedono. Anche se non è giusto. Anche se le richieste arrivano a stravolgere l’esistenza pacifica di un gruppo di persone che ormai Anita può chiamare amici. Tra loro c’è la saggia Clara, l’irriverente Candida, la dolce Diana, l’affascinante Julian, il ribelle Rodolfo e ovviamente Sebastiano. Il suo Sebastiano. Perché vivono anni così difficili? Perché non possono fidarsi di nessuno se non l’uno dell’altro? Perché non smettono di tenerli d’occhio? Anita non ha risposte, forse i protagonisti delle storie gialle che ha imparato ad amare potrebbero averle. Oppure anche loro non potrebbero fare altro che dirle di non avere paura, che il pericolo è l’adrenalina della vita. Ma Anita non è abituata a fuggire. Non è abituata a mentire. All’improvviso è dentro uno dei racconti di JD Smith, solo che stavolta Anita non ha la minima idea di come può andare a finire…

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Fonte: www.illibraio.it