Il grande tema (o non-tema?) dell’amore è da sempre, nella lirica, un territorio sconfinato, nel quale il rapporto serrato con l’altro si svolge in una serie di implicazioni aperte, che mettono in gioco il senso ambiguo dell’esistere. Antonio Riccardi alimenta, con originalità e carattere, questa condizione, tanto che i suoi versi d’amore diventano meditazioni riccamente sfaccettate, modulate su varie sequenze di immagini, capaci di coinvolgere la morale e il disagio del proprio incontro col mondo. I suoi percorsi, fittissimi di cose e situazioni, ci appaiono come «nell’aria liquida del dormiveglia», in paesaggi al tempo stesso accoglienti e aggressivi come quelli di un vasto teatro naturale, dove la meraviglia e la favola dell’ambiente esotico – Brasilia, il Rio de la Plata, la Siberia Orientale o foreste tropicali – tendono a ridursi, inesorabilmente, a una più ordinaria quotidianità. Tanto è vero che il più magico e fantasioso, il più immaginifico scenario d’amore è proprio nel chiuso del Museo di Storia Naturale, dove mirabilmente si manifestano presenze formidabili, bestie lente e feroci, in un suggestivo inventario di figure che acquistano risalto mitico: il granchio gigante del Giappone, il giaguaro, il formichiere, i narvali, l’animale dal cranio allungato. Nel quadro della natura ridotta umanamente a museo, il poeta vive l’incanto e la sospensione dell’amore, sogna magiche trasparenze liquide dove qualcuno nuota in felice armonia, trova il conforto irrinunciabile della presenza femminile che lo sottrae alle sue ossessioni e ai suoi sensi di colpa, che lo rende finalmente più leggero e sciolto di fronte a una realtà troppo spesso affrontata con tremore e tormento.
Qui potrai visualizzare le recensioni di GoodReads.