Cosa non più, diresti tu
correggendomi sottovoce
e cosa volevamo diventare.
Speculari, pronosticavi.
Adesso però considera lo strano
e notevole ruolo della mano
nel discorso. Sei sempre e solo tu
a mimare cronofasi e ferite
nella nostra cronologia.
A dieci anni dalla sua ultima raccolta di versi, Antonio Riccardi torna alla poesia con un libro compatto e insieme variegato, ricco di accenti e sfumature. Tormenti della cattività, che deve la sua ispirazione più profonda alla poesia di Vittorio Sereni e a quella di Attilio Bertolucci, racconta ciò che nella vita di ogni giorno si oppone, più o meno duramente, al desiderio di libertà. Ognuno, sembra dire l’autore, affronta le diverse condizioni della propria esistenza – la memoria dei luoghi e delle cose, l’erotismo, il lavoro e infine la morte – con fatica, spesso con insofferenza. E a volte aspira a tagliare i legacci che lo costringono. All’incrocio tra vero e falso, tra verosimile e incerto, come se la scena della vita fosse un diorama, il poeta fa agire e pensare una figura che lo «interpreta» e dice che l’esistenza è un enigma, di cui i «tormenti della cattività» sono la rappresentazione figurata, i racconti allegorici in miniatura. Così Riccardi, lavorando la parola come un’arte sapienziale che salva i nodi di senso dal corso mutevole della storia e li rende esemplari, dà le sembianze di un museo di scienze naturali a uno dei luoghi fondativi della sua poesia, il podere di famiglia a Cattabiano, sull’Appennino emiliano; ripercorre le dinamiche delle relazioni d’amore come un interprete di significati araldici; allude al lavoro editoriale nello spettro di una crittografia; e riflette sul mistero della morte nell’estetica impassibile del cenotafio.