Ispirato dal «fascino quasi fraterno» di Poe e dalle personali esperienze con gli allucinogeni, Baudelaire affida ai Paradisi artificiali le sue riflessioni sul rapporto tra la creazione artistica e le droghe, considerate «mezzi di moltiplicazione dell’individualità». L’opera raccoglie il saggio Del vino e dell’hascisc (1851) e gli scritti, apparsi tra il 1858 e il 1860, Il poema dell’hascisc e Un mangiatore d’oppio, quest’ultimo traduzione ed esegesi delle Confessioni di un mangiatore d’oppio di Thomas de Quincey. Attraverso queste sostanze che alterano la percezione, dilatano l’io, intensificano l’immaginazione creatrice e trasfigurano in modo fantasmagorico la realtà, l’uomo appaga il proprio «gusto per l’infinito» e cerca di sfuggire ai propri limiti, alla prigione del corpo, alla schiavitù del tempo. Ma di tutte le voluttà artificiali, l’unica davvero capace di aprire le porte del paradiso è la poesia, che traduce i geroglifici del mondo e coglie le sottili e misteriose corrispondenze della natura.
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