Dove si coagula la moralità, nella vita di uno studioso?
«La moralità, per uno studioso, è tutta lì: è il sapersi castigare quando si corre troppo e, nello stesso tempo, il non rifiutarsi all’illuminazione.»
Gianfranco Contini è nato nel 1912 a Domodossola, dove ha trascorso un’infanzia felice e solitaria (sua madre era stata maestra, suo padre funzionario delle ferrovie); e a Domodossola è tornato ad abitare in questi anni, massimo italianista e studioso vivente di lingue e letteratura romanze, per riconoscimento pressoché universale. Compiuti gli studi superiori a Pavia, a ventisei anni consegue la cattedra di Filologia Romanza a Friburgo (Svizzera). Nel ’44 vive di persona la fugace epopea della repubblica partigiana della val d’Ossola. Dopo la guerra insegna all’Università di Firenze, poi alla Normale di Pisa. Le tarde conseguenze di un ictus del ’70 lo menomeranno spietatamente nel fisico, senza appannarne l’ardimento intellettuale, la generosità, l’ironia. La sua produzione è estesissima, ma rigorosa, asciutta (non ha scritto un rigo di troppo, e a questo è forse dovuta la sua fama di «scrittore difficile»): sul versante storico-filologico si segnaleranno almeno l’edizione delle Rime di Dante e quella dei Poeti del Duecento (corredate da schede e note di preziosa densità), l’edizione critica del Fiore, pagine cruciali su Dante, Petrarca, Ariosto…, il basilare Breviario di ecdotica; sul versante della critica militante, saggi memorabili (Gadda, Montale, Pasolini, Pessoa, Céline…) poi raccolti in volumi miscellanei, da Esercizî di lettura a Ultimi esercizî ed elzeviri; sul crinale, la Letteratura dell’Italia unita, un «bilancio-campionario» dell’ultimo secolo di patrie lettere, che naturalmente ha scandalizzato molti esclusi. Nelle more della sua infaticabile attività di studioso e docente, Contini ha conosciuto e frequentato una rara selezione di intellettuali europei, e in pagine di grandissima prosa si è segnalato come insostituibile testimone d’epoca. Nel 1955 ha sposato una studentessa di Bochum, Margaret Piller; con lei ha avuto due figli: Riccardo e Roberto.
Ludovica Ripa di Meana è nata a Roma nel 1933 fra i privilegi di un antico casato, quarta di sette fratelli. Dopo la guerra un improvviso collasso economico la costringe a interrompere il ginnasio-liceo e ad avventurarsi nella vita. Stenodattilografa a quindici anni, poi segretaria di un settimanale di cultura, redattrice editoriale della Feltrinelli e della Mondadori, e via via aiuto-regista di cinema, regista di inchieste televisive, giornalista dell’«Europeo», autrice di popolari trasmissioni tv. Una passione bruciante e disordinata per i libri, la disponibilità integrale alle storie e alle voci degli interlocutori, un’aristocratica assenza di protagonismo le hanno consentito di conversare «alla pari» con personaggi grandi e bizzarri, facendo di lei uno dei più apprezzati intervistatori italiani, forse il più singolare «autobiografo» d’altri. Fra gli innumerevoli, andrà ricordato almeno l’emozionante ritratto televisivo di C.E. Gadda; per Adriano Celentano, mimandone l’affabulazione stralunata, ha scritto Il paradiso è un cavallo bianco... Alla voce di Federico Zeri ha carpito il fortunatissimo Dietro l’immagine, di cui ha elaborato la redazione scritta. Ha un figlio e una figlia, una nipote e un nipote, e vive a Roma.
Nello spazio che intercorre fra due persone così remote per origine, indole e applicazione al mestiere di esistere circola questo libro singolarissimo. Appropriandosi delle minute curiosità e dei dubbi semplici e seri di Ludovica Ripa di Meana, ogni lettore potrà percorrere con confidenza e trepidazione (talora anche con ilarità) ricordi, umori, riflessioni d’una vita dedicata con «diligenza» inesorabile alla «voluttà» dello studio; affacciarsi, senza sgomento di soggezione, in un interno borghese ai margini di Domodossola, dove vive fra i libri e le inquietudini quotidiane uno dei più famosi e ardui intellettuali di questo secolo.