Miti e maestri

di Marco Lazzarin | 12.06.2024

In principio era Ernest Hemingway — l’indiscutibile nord che inseguivo nella mia tarda adolescenza alla ricerca di nuove vie per vivere. Furono i suoi racconti a folgorarmi: poche pagine asciutte che riuscivano a rivelare momenti di profonda umanità attraverso le più semplici delle frasi.

Eppure Hemingway mi sedusse pure per la carica mitologica che si portava appresso. Tanto che la sua biografia divenne una sorta di manuale di cosa avrei voluto fare nel mio prossimo futuro: caffè parigini, festa di San Firmino a Pamplona, diventare partigiano in una resistenza non ancora nata. Allora uscivo con un basco simile a quello che aveva in un suo ritratto, e nelle serate con gli amici tiravo fuori un taccuino su cui appuntavo le mie impressioni, affermando che pure io volevo fare lo scrittore.

Uno scrittore — non avevo idea di cosa significasse esserlo. Quando buttai giù i miei primi racconti, ricercavo l’ispirazione e i lampi di genio, sperando che un pomeriggio sarebbe arrivata la voce di quel personaggio che avrebbe scritto la storia al posto mio, e che dalle mie dita sarebbe uscito il mio primo romanzo nel giro di poche settimane — nel frattempo, ovviamente, lamentavo che avevo il famosissimo blocco. Non si faceva così?

Imparai a leggere durante il mio primo anno all’università: non mi immergevo più nei romanzi per vedere come andava a finire la storia, ma per trovare quelle frasi e parole che ti aiutano a interpretare l’esperienza, per nutrirmi dell’intelligenza di quelle donne e di quegli uomini che avevano scritto quelle pagine. Così il fascino che gli scrittori e le scrittrici esercitavano su di me diventò ancor più forte: affollavano un mio personale Olimpo di figure cariche di capacità quasi sovrannaturali. Volevo capire dove fossero nati quei poteri che avevano riversato nelle loro pagine, così le biografie, le lettere e le interviste divennero compagne fondamentali dei romanzi. Volevo imparare.

E colui da cui imparai di più fu Philip Roth. Grazie a lui capii che non c’entrava nulla cosa facessi o dove fossi cresciuto o dove vivessi — non servivano né Parigi né Pamplona — ma serviva guardare alla vita con occhio critico, e domandare all’esperienza le stesse domande che cercavo nei libri. Dovevo spogliare la realtà delle illusioni e dei luoghi comuni, e guardare la bellezza e lo squallore, la gioia e la tristezza, la realtà e l’immaginazione, e cogliere dove tutto ciò si intersecava. Lo sguardo doveva essere severo e intransigente, spietato perfino. Ed intransigente doveva essere l’etica lavorativa: la scrittura di un  romanzo necessita di tanto lavoro.

Bisognava scrivere, imparare a buttar via, e ricominciare; bisognava portarsi al tavolo per provare a scrivere un paragrafo anche a costo di cancellarlo più volte finché non funzionava; bisognava insistere finché la mia visione del vero non appariva tra le righe. Ci provai pure io—volevo raccontare il mio sguardo. Decisi di raccontare come uno scrittore può segnare un ragazzo. Ne inventai uno, di scrittore: Lionel Kronenberg — somma di tutti, ritratto di nessuno.

L'ultima primavera di Kronenberg di Marco Lazzarin

L’AUTORE E IL LIBRO Marco Lazzarin è nato nel 1987 nel trevigiano, dove vive. Nasce in dialetto, cresce in italiano, studia in inglese. All’università approfondisce la letteratura americana. Passa un periodo a Londra, dove frequenta un workshop di scrittura creativa. Ora insegna inglese.

L’ultima primavera di Kronenberg (Garzanti) è il suo romanzo d’esordio.

Il protagonista del libro, Jacopo, conosce a memoria i romanzi del famoso Lionel Kronenberg, e proprio da quella passione è nato il desiderio di diventare uno scrittore. Un sogno che, purtroppo, ha dovuto richiudere nel cassetto, infranto da un brutto scherzo che gli ha giocato la vita.

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Così, quando si trova a fare da accompagnatore a Kronenberg durante un festival letterario non ha grandi aspettative: è solo felice di poterlo incontrare. Ma lui si rivela scorbutico e poco cordiale. Sembra che nulla possa abbattere le sue difese, neppure la profonda ammirazione che Jacopo gli dimostra. Dietro allo scrittore, però, c’è un uomo. Un uomo con un segreto che non vuole svelare. Perché anche chi vive di parole può decidere di utilizzarne solo alcune, consegnandone altre all’oblio. Eppure, raccontare le proprie storie, a volte, non è un atto consapevole, ma un bisogno primordiale…

Un istinto che infrange ogni barriera. L’unico modo per dare un senso al caos della realtà. Kronenberg non si aspettava che accadesse proprio in quel momento e Jacopo non era pronto a essere travolto da quel tornado di verità. Ora non gli resta che riprendere in mano la penna e affrontare la parte più nascosta di sé. Solo così può imparare a vivere. Ma ci vuole coraggio. Il coraggio di un bravo autore. Solo così può nascere un capolavoro.

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Fonte: www.illibraio.it