“Non venire, non ti amo”. Così sono rimasta pietrificata un mese sulla panchina della stazione

di Carmela Scotti | 12.09.2016

Quello che proponiamo qui di seguito è un racconto ispirato a un’esperienza realmente vissuta. L’autrice, Carmela Scotti, nella foto sotto, è al debutto nel romanzo con  L’imperfetta (qui un capitolo), in libreria per Garzanti dopo esser stato finalista al premio Calvino. Il libro racconta la storia di una ragazza coraggiosa e troppo sola. Della sua voglia di vivere contro tutto e tutti. Di una stella che continua a brillare anche in un cielo coperto di nuvole.

Carmela Scotti

Sono salita sul treno in una giornata di brezza leggera, quando l’intera città aveva gli angoli della bocca piegati in su in un largo sorriso e il cielo era terso e profondo come una distesa d’acqua addormentata. Sono salita sul treno che gli uccellini cantavano gonfiando il petto di note appuntite come frecce, e un sole tondo e pacioso regnava su tutte le cose. Portavo con me un grosso zaino blu in cui avevo stipato tutte le mie cose, le cinghie che disegnavano piccoli solchi arrossati tra le bretelle del reggiseno e l’incavo delle ascelle, e a pesarmi, strano a dirsi, non era il fardello degli oggetti ma tutto quello che non ha peso: i pensieri, i battiti del cuore, i respiri faticosi che scivolavano dalla mia bocca al cielo, le occhiate stanche a tutto ciò che stavo lasciando. Se il giorno in cui mi sono avvicinata alla stazione, ho percorso il binario senza vederlo e sono saltata sul primo treno in partenza, la natura, anziché pienezza e trionfo, avesse mostrato un po’ di compassione, regalandomi, che so, qualche nuvola nera carica di pioggia, una folata di vento secca e fredda come l’alito delle matrigne delle fiabe, o anche soltanto un cielo colore dell’amianto; qualcosa insomma, che equivalesse alla comprensione, non mi sarei sentita così sola. Invece c’era il sole-tuorlo alto nel cielo e gli uccellini che cinguettavano fra i rami e poi dentro la mia testa, nella corteccia, tra i gangli, nella Dura Madre. Poi il treno ha avuto uno scossone, come un grosso animale che si svegli dal letargo per infilarsi dritto nella pancia arrugginita della nave traghetto, fuori dalla Sicilia e dentro la terraferma, in un rollio sonnolento di onde e beccheggi, cigolii e risate di marinai.

Quella mattina avrei dovuto prendere un treno, non quello sul quale adesso mi trovavo, ma uno che andava in un luogo preciso, la Spagna, e la mia postura avrebbe dovuto odorare di attese e di vacanza. Quella mattina io e il mio zaino con la mia vita dentro, avremmo dovuto lasciare la Sicilia per raggiungere il mio amore lontano, e avremmo dovuto farlo saltellando come in un vecchio musical della “RKO”, cantando una canzone orecchiabile sottolineata dal coro discreto dei viaggiatori. Quella mattina il mio zaino avrebbe dovuto essere talmente leggero da correre da solo, precedermi e fare capolino da dietro le colonne della stazione sorretto da due alucce di piume candide, se solo la sceneggiatura fosse stata all’altezza. Perché finalmente io e il mio zaino con la mia vita dentro andavamo da lui, incontro a quel futuro così tante volte sognato, così minuziosamente pianificato da essere più vero di ciò che puoi stringere tra le dita. Avevo lasciato tutto per il mio amore lontano, il lavoro, la casa, gli amici, come un’eroina ottocentesca che fa dono di sé, tutta intera, all’uomo che la sta aspettando da qualche parte, e che importa se quel luogo dimori sulle terre emerse o nel fondo degli abissi insondabili o su una galassia di un improbabile film di fantascienza, perché tu ci arriverai comunque. Avrei dato tutto per stare con lui, mi sarei tolta la pelle di dosso, l’avrei essiccata al sole forte dell’estate, l’avrei profumata con balsami e unguenti e gliene avrei fatto dono, se solo me lo avesse chiesto. E invece proprio in quella mattina di sole radioso spaparanzato nell’alto dei cieli, in quel tempo sospeso di cinguettii, brezze salate e increspature leggere, era arrivata una sua lettera e quella lettera era piena di parole e tutte dicevano “NO” alla mia pelle essiccata al sole e a qualunque dono avessi pensato di confezionare come pegno d’amore, da una cesta di frutta matura al mio cuore offerto in sacrificio.
«Non venire, non ti amo, ti ho scritto una lettera perché mi è mancato il coraggio di parlarti» c’era scritto su quei fogli a quadretti stropicciati, e il mondo intorno si era fatto strano, come se rallentasse i suoi battiti prima di tacere per sempre. «Non venire, non ti amo, non te l’ho detto per telefono», «Non venire, non ti amo», «Non venire», e di colpo era un silenzio da spaccare le orecchie e gli occhi, da farti diventare cieca e sorda. Ho posato la lettera sul tavolo, o forse è solo scivolata a terra con un ultimo rimbombo, e in un secondo, in un frammento di secondo, in un lampo infinitesimale da non essere misurabile con i parametri del tempo conosciuto, sono morta.

Per molte ore ho sperato che quel treno, non quello che avrei dovuto prendere nella mia precedente vita, ma quello su cui sono salita senza conoscerne neppure la destinazione, non si fermasse mai, che continuasse a correre, anche per anni se fosse stato necessario, che si trascinasse sbuffando sulle rotaie fino a che non mi fossi dimenticata, fino ai confini conosciuti della mia memoria, fino ad un luogo, se mai fosse esistito, dove la gente andava per dimenticare, una specie di cimitero remoto dove scavare una buca e seppellire i ricordi irranciditi. Ovunque girassi la faccia, sulle mie scarpe, sullo zaino addormentato ai miei piedi, sul paesaggio frantumato in filamenti di luci e colori come uno strano quadro futurista, io non vedevo altro che lui, nient’altro sentivo, se non la sua voce che mi parlava nel vuoto del vagone. E tanti dettagli stupidi e preziosi ricordavo, il suo occhio destro che si chiudeva appena un po’ dopo una giornata davanti al computer, la sue dita strette sulla manopola dell’autoradio alla ricerca della “musica perfetta”, le sue dita sulle mie guance, le sue dita strette sulla penna che gli era servita a costruire il suo rifiuto, secco e inappellabile come una sentenza di morte.

Quando il treno si è fermato, eravamo a Roma, ma io non avevo fatto in tempo a dimenticare. Non ero neppure riuscita a cancellare l’immagine delle sue dita, figuriamoci i suoi occhi o il suo corpo tutto intero. Prima di scendere alla Stazione Termini, ho aspettato, rannicchiata sul sedile di quel vagone cigolante, casomai il treno avesse deciso di ripartire, di prendersi cura di me e portarmi in giro per il mondo. Se lo avesse fatto, se con un altro scossone stanco avesse ripreso il suo cammino, io non avrei mai chiesto “dove” o “perché”, non avrei mai avanzato pretese. Avrei vissuto in simbiosi con lui, come fanno certi animaletti sul dorso duro delle bestie, sarei diventata parte della tappezzeria, avrei finito per fondermi col ferro e la plastica, con la polvere sotto le scarpe dei passeggeri. Lo avrei amato incondizionatamente quel treno, se solo non mi avesse costretto a scendere, se non mi avesse lasciata sola con me stessa. «Non farmi andar via» ho detto ai sedili logori color caffè «non lasciarmi», ma il treno ha aperto le porte con uno scatto nervoso a dire che il viaggio finiva lì, e bisognava proprio che togliessi le tende.

Io di Roma non so raccontarvi niente, perché per tutto il tempo che sono rimasta, non ho mai messo piede fuori dalla stazione. Mi sono seduta su una panchina e ci sono rimasta un mese, girovagando fra i treni che andavano e venivano portando gli uomini da qualche parte e riportandone indietro altri, e allora ho capito che il treno si prende cura delle persone solo se queste hanno una meta e i mezzi per raggiungerla. Io non sapevo dove andare perché l’unico posto dove avrei voluto essere aveva alzato un muro e armato i soldati con l’olio bollente, per tenermi lontana. Ogni tanto mi spingevo fino all’ingresso principale e guardavo il mondo attraverso le grandi vetrate, il viavai delle persone, le voci, le macchine, un cielo azzurro e vasto e nessun posto dove andare, nessuna mano pronta ad afferrarmi, così giravo le spalle e ritornavo verso i binari, ad accucciarmi sulla mia panchina.

Di giorno guardavo i treni partire finché i vagoni e le mani tese a salutare diventavano un puntino scuro in fondo ai binari e poi più niente, e di notte sognavo la sua bocca che diceva “NO” a tutte le mie domande, la sua nuca testarda composta in un rifiuto che mandava in pezzi il mio sonno agitato. L’ho sognato ogni notte in quel mese, dopo aver passato la giornata a leggere una copia logora di Chiedi alla polvere immaginando di perdermi nel deserto come la povera Camilla. L’ho sognato ogni notte, e non c’è stata notte in cui lui non mi abbia mandato via. Ogni tanto, la domenica per esempio o quando non avevo fame o freddo, chiudevo gli occhi e arrivavo a Valencia in treno. Lui era felice di vedermi e la sua casa era la mia casa. Io gli dicevo «fammi restare» e lui mi rispondeva «non devi mai andartene via». Per molto tempo ho continuato a vedere e sentire tutto senza sentire e vedere niente, come se il mondo fosse lì, dietro un vetro spesso e lurido che non volevo e non potevo abbattere; per molto tempo ho desiderato la morte della maggior parte dei viaggiatori che incontravo senza aver mai avuto il coraggio di ucciderli, ho odiato chi aveva una meta e una porta aperta ad accoglierli quando ci fossero arrivati. Poi, una mattina, ha cominciato a piovere; all’inizio gocce minuscole e frettolose che scavavano furiose tra le giunture del tetto, poi chicchi grossi e indolenti, atterrati sui miei occhi asciutti e su ciò che restava dei miei vestiti. Mi sono allacciata le scarpe, ho caricato lo zaino logoro sulle spalle e ad occhi chiusi ho varcato l’ingresso, un piede e poi l’altro, un braccio, la testa, il corpo tutto intero nel piazzale zuppo di pioggia e di gente infreddolita.

Ho detto alla città «Sono pronta, fammi restare» e lei ha allargato le braccia senza chiedermi niente. Ha piovuto per qualche giorno, poi, di colpo, è uscito il sole.

 

Fonte: www.illibraio.it