Ero entrata in libreria per comprare A sangue freddo, di Truman Capote, che ho poi infilato in valigia e portato con me in vacanza. Non è entrato nella mia vita per caso, l’avevo scelto e cercato, come i figli intensamente desiderati. Non ricordo con precisione quanti anni sono passati da quella grande scoperta, senza dubbio molti. Ricordo invece che era un luglio rovente e che l’ho letto in spiaggia, sferzata dagli elementi, senza un tetto sopra la testa né pareti intorno, perché le pagine così sembrano respirare meglio e comunicano con gli alberi, l’aria, gli insetti, gli uccelli e tutto ciò che le circonda.
Capote non mi era sconosciuto come scrittore. Avevo letto Colazione da Tiffany e visto il film con l’adorabile Audrey Hepburn nel ruolo di Holly Golightly, ed ero rimasta letteralmente stregata dall’amara frivolezza del personaggio, dalla sua gioiosa tristezza. Da allora, mi sono sempre immaginata Capote un po’ come Holly, mentre cercava conforto alla sua angoscia di vivere nelle feste più ricercate e sfrenate di New York, dove la sua presenza era diventata indispensabile quale icona della modernità. Per questo ero curiosa di leggere A sangue freddo e sapere in che modo avesse trasformato sul piano della narrazione – che sembra essere il luogo naturale dove collocare un gesto incomprensibile e assurdamente malvagio – l’atroce storia vera di due ragazzi che uccidono un’intera famiglia senza un motivo evidente.
Mi avevano molto impressionato e fatto aprire gli occhi anche alcune riflessioni di Capote sulla scrittura che avevo captato qua e là. Di fatto, quando voglio spiegare in cosa consista per me la letteratura, ricorro alla frase seguente: “Scrivere è stato divertente fino a quando ho scoperto la differenza che esiste tra scrivere bene e scrivere male; in seguito ho fatto un’altra scoperta ancora più allarmante: la differenza tra scrivere bene e la vera arte; è una differenza sottile ma brutale”. Quindi non era strano che, pur avendo conquistato un successo letterario e sociale immenso, Capote avesse deciso di giocarsi il tutto per tutto e rischiare il massimo trasferendosi nel 1959 a Holcomb, un paesino del Kansas, per poter raccontare proprio dal luogo dove i fatti si erano consumanti, l’assurdo sterminio della famiglia Clutter. Una famiglia assolutamente normale che, all’improvviso, senza alcun motivo, viene strappata dalla sua casa graziosa, dai suoi campi tranquilli e dalla sua dorata e monotona realtà.
Una volta lì, penso che più del delitto in sé, lo abbia impressionato il trovarsi immerso nel mondo ormai inesistente e spettrale dei Clutter, il guardare in faccia il destino inevitabile verso il quale tutti ci dirigiamo, ma che vediamo compiersi sempre attraverso le vita degli altri. Forse in Kansas Capote trova la riprova di ciò che già sa: che la vita è puro caso, solo fumo. Indubbiamente, se non fosse stato per la sua ostinazione, che non demorde per sei anni, nessuno ricorderebbe quell’avvenimento, nessuno si ricorderebbe dei morti, né di Dick e Perry, i loro boia (che, tra l’altro vengono arrestati mentre Capote scrive la storia) e nemmeno dei poliziotti che si occupano del caso, come neppure dei vicini e degli amici dei Clutter, e nessuno potrebbe leggere uno dei romanzi più affascinanti del XX secolo che narra di perdenti e sogni infranti: A sangue freddo.
La trama si basa sul puro divenire degli eventi e sulle informazioni raccolte a Holcomb, compito forse facilitato dalla fiducia suscitata dal suo aspetto fragile: i tratti delicati, gli innocenti occhi azzurri e i capelli biondi. Ma soprattutto dall’impagabile aiuto della sua grande amica d’infanzia Harper Lee, autrice dello splendido romanzo Il buio oltre la siepe e che proprio in questi giorni ci ha lasciati per sempre.
Quando dico che Capote rischia il tutto per tutto non mi riferisco solo all’aspetto letterario ma anche a quello emotivo. Si spinge a intrattenere uno stretto rapporto con gli imputati fino al momento dell’esecuzione. Questa situazione gli crea non pochi conflitti morali ed emotivi, cosa che per alcuni rappresenta l’origine di tutti i suoi mali successivi ma che sicuramente lo aiuta a scolpire degli assassini profondamente complessi e umani, al punto che – pur senza giustificarne le azioni -, riesce a presentare come vittime della società. E non solo, decide di trasformare Perry – uno degli assassini – nel più tormentato di tutti i personaggi, nel più sensibile e diffidente, nel più sognatore, più superstizioso, più disorientato e più bisognoso di quell’amore che, solo per il fatto di desiderarlo, avrebbe dovuto essergli stato concesso. Cosi come a Capote e a tutti noi.
Questi sono i suoi grandi mali, gli altri provengono da un’infanzia infelice e incerta che cerca di dimenticare nelle frizzanti feste newyorchesi. Ma la vita decide per noi e all’apice della carriera bussano alla sua porta quegli strani mali chiamati dubbi e giudizio critico e anziché scrivere, trascorre anni a passare al setaccio ogni singola parola già pubblicata. Gli sembra che gli scrittori in generale siano un po’ troppo poderosi e che la sua stessa scrittura stia diventando troppo densa. Comincia ad avanzare obiezioni anche su A sangue freddo. Dice che “Quando Dio ti concede un dono, ti consegna anche una frusta; e questa frusta è predisposta unicamente all’autoflagellazione”. Bastava una semplice occhiata per sapere che era proprio così: droghe, alcol, caos sentimentale, mentre era alla disperata ricerca di una forma letteraria perfetta, lontana e irraggiungibile come una nuvola.
A nessuno sembra più né divertente né affascinante e meno ancora dopo la pubblicazione nel 1976 di alcuni capitoli dell’attesissimo, Preghiere esaudite, che provoca l’indignazione generale. Ciò nonostante, nel 1980, fa un ultimo sforzo per migliorare la propria immagine e pubblica Musica per camaleonti. Muore quattro anni più tardi. Da allora custodisco come un piccolo tesoro una frase che sembrava avesse scritto per me: “Florie, tesoro, io so cosa intendi dire … perché io ci sono stato nel centro del nostro pianeta; o almeno ho patito le tribolazioni che un viaggio del genere può infliggere. Ho cercato uranio, rubini e oro e, lungo il cammino, ho visto altri impegnati in queste stesse ricerche. E senti, Florie, – ho incontrato Mostri Non Rovinati! E anche Mostri Rovinati. Ma la varietà non rovinata è rara avis … La sola cosa che non ho fatto è trasferirmi in campagna”.
Ci proverò, te lo prometto.
© Clara Sánchez
LA RUBRICA – Letture impossibili da dimenticare, rivelatrici, appassionanti. Libri che giocano un ruolo importante nelle nostre vite, letti durante l’adolescenza, o da adulti. Romanzi, saggi, raccolte di poesie, classici, anche testi poco conosciuti, in cui ci si è imbattuti a un certo punto dell’esistenza, magari per caso. Letture che, perché no, ci hanno fatto scoprire un’autrice o un autore, di ieri o di oggi.
Ispirandoci a una rubrica estiva del Guardian, A book that changed me, rifacendosi anche al volume curato da Romano Montroni per Longanesi, I libri ti cambiano la vita. Cento scrittori raccontano cento capolavori, e dopo il successo dell’iniziativa proposta recentemente sui social da ilLibraio.it, #ilLibroPerMe, in occasione della presentazione della ricerca sul rapporto tra lettura e benessere, abbiamo pensato di proporre a scrittori, saggisti, editori, editor, traduttori, librai, bibliotecari, critici letterari, ma anche a personaggi della cultura, della scienza, dello spettacolo, dell’arte, dell’economia, della scuola, di raccontare un libro a cui sono particolarmente legati. Un’occasione per condividere con altri lettori un momento speciale.
L’AUTRICE – Clara Sánchez, autrice di quest’intervento per ilLibraio.it, vive a Madrid. Già autrice di romanzi inediti in Italia e vincitrice del premio Alfaguara, con Il profumo delle foglie di limone ha raggiunto la fama mondiale. Il suo ultimo libro pubblicato da Garzanti è La meraviglia degli anni imperfetti.
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Fonte: www.illibraio.it