“Perdonate e sarete perdonati”: riflettere oggi sul messaggio pacifista di Gesù

di Alberto Maggi | 14.03.2025

Brutto come il peccato

Siate misericordiosi come il Padre vostro è misericordioso” (Lc 6,36). Tutto il messaggio di Gesù non è altro che una variazione su questo tema, una riproposizione di questa espressione in molteplici forme. Mentre nell’Antico Testamento il Signore concludeva le sue prescrizioni con la perentoria richiesta “Siate santi come io sono santo” (Lv 11,44.45; 19,2), Gesù riprende l’espressione ma la modifica e chiede di essere misericordiosi come il Padre. La santità, intesa come  scrupolosa osservanza di regole religiose, può separare dagli altri, invece l’amore misericordioso, materno, viscerale, quello che “tutto copre, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta” (1 Cor 13,7), non solo non allontana, ma avvicina, non separa, ma unisce.

Con questo invito Gesù chiede ai suoi discepoli di sintonizzare la loro vita con l’onda d’amore vivificante di Dio, per collaborare alla sua stessa azione creatrice, una creazione che “attende con impazienza la rivelazione dei figli di Dio” (Rm 8,19) e che “geme e soffre fino ad oggi nelle doglie del parto” (Rm 8,22). Il Creatore comunica incessantemente il suo Spirito agli uomini ma ne rispetta i ritmi e i tempi, non li forza. È certo che il suo progetto d’amore si realizzerà pienamente e sa che ogni frettolosa scorciatoia potrà portare solo all’interruzione del dinamismo stesso della creazione.

Per questo Gesù nel suo insegnamento si rifà spesso ai cicli della natura (“Dal fico poi imparate la parabola: quando ormai il suo ramo diventa tenero e spuntano le foglie, sapete che l’estate è vicina”, Mt 24,32), arrivando a paragonare il regno di Dio a “un uomo che getta il seme nella terra; dorma o vegli, di notte o di giorno, il seme germoglia e cresce; come, egli stesso non lo sa. Poiché la terra produce spontaneamente, prima lo stelo, poi la spiga, poi il chicco pieno nella spiga” (Mc 4,26-28). L’agricoltore sa con certezza che il seme gettato in terra germoglierà, ma sa anche che ogni intervento teso a sollecitarne la crescita può produrre danni irreversibili. L’insegnamento che viene dalla coltivazione della terra è infatti che, pur gettando gli stessi semi, la loro crescita richiede tempi diversi dovuti alla differente natura del terreno, all’umidità, alla luce, e ogni intervento teso a controllare la crescita è dannoso.

Gesù nel suo insegnamento ricorre a immagini agricole non solo per rendere comprensibile il suo messaggio all’uditorio, ma anche perché la lezione che viene dalla natura è il rispetto dei suoi ritmi. Essi spesso sono ritenuti lenti di fronte alle impellenti esigenze degli uomini e si può essere tentati di forzarli. Il risultato è disastroso. Per questo Gesù  in una parabola narra di un tale che voleva tagliare un fico. Da anni l’albero non portava frutti e l’uomo lo considerava una pianta inutile che sfruttava il terreno. Ma il saggio vignaiolo, più esperto del suo padrone, non è d’accordo. Se l’albero non porta frutto è perché non ha  trovato le condizioni ottimali per fiorire e fruttificare, quindi si propone di far respirare le sue radici zappandoci attorno e soprattutto concimandolo (Lc 13,6-9). In questo insegnamento sono contrapposte due azioni, una immediata e l’altra lenta, una che distrugge e l’altra che vivifica.

L’invito di Gesù di sintonizzarsi con l’azione creatrice del Padre delude, però, quanti si aspettano una soluzione rapida e immediata ai loro problemi. Essi confidano in un Dio che attraverso potenti manifestazioni visibili di forza li possa liberare dagli oppressori, secondo la promessa che “il Signore, vostro Dio, cammina con voi, per combattere per voi contro i vostri nemici” (Dt 20,4). Era questa la speranza d’Israele, di un Dio che fosse “salvezza dai nostri nemici, e dalle mani di quanti ci odiano… liberati dalle mani dei nemici…” (Lc 1,71.74). Gesù smentisce questa attesa e chiede ai suoi di innescare una dinamica di bene che sia indipendente dalle qualità delle persone che ne sono l’oggetto: “A voi che ascoltate, io dico: Amate i vostri nemici, fate del bene a coloro che vi odiano…” (Lc 6,27).

Dai nemici non si viene liberati attraverso azioni potenti o di violenza, che non fanno altro che accrescere l’odio e l’inimicizia, ma mediante l’offerta di una nuova potente relazione con essi. Per questo motivo Gesù invita i suoi discepoli non solo ad amare i nemici, ma addirittura a far del bene a coloro che li odiano. Il Signore non sta chiedendo l’impossibile, ma solo quel rientra nelle possibilità umane, un amore che sia capace di rispondere all’odio con un bene ancora più grande del male ricevuto, riuscendo così a neutralizzarlo (“L’odio suscita litigi, l’amore ricopre ogni colpa”, Pr 10,12).

“Perdonate e sarete perdonati” (Lc 6,37) chiede Gesù. Il perdono non si riceve attraverso un’azione liturgica andando al tempio, ma con un atteggiamento dinamico con cui riempire d’amore la persona che ha sbagliato. Perdonare significa far comprendere all’altro l’inutilità della sua inimicizia e cattiveria, perché tanto la sua capacità d’odio non sarà mai così forte e potente come la risposta d’amore del credente di volergli e fargli del bene. Per questo Gesù invita i suoi discepoli ad avere un atteggiamento positivo anche nei confronti della violenza, non nel senso che questa deve essere subita in maniera passiva, ma che occorre disinnescarla con un’offerta ancora più grande d’amore. Ecco perché Gesù afferma “a chi ti percuote sulla guancia offri anche l’altra” (Lc 6,29). Reagire porgendo l’altra guancia significa far prendere coscienza a chi schiaffeggia che dell’inconsistenza della sua violenza e del fatto che la dignità la perde chi colpisce, non chi viene schiaffeggiato. Invitati ad assomigliare al Padre e a collaborare all’azione rigeneratrice del Creatore, Gesù chiede ai suoi di essere capaci di un amore generoso e gratuito verso il nemico per ricrearlo, comunicando vita laddove c’è solo morte. C’è sempre la speranza che una risposta d’amore, anziché di odio, lo trasformi e risvegli anche in lui un atteggiamento positivo e la sua vita possa così rifiorire.

In questa sua ripetuta insistenza sull’amore per il nemico, ogni volta formulata allargandone sempre più il raggio d’azione, Gesù arriva a chiedere quel che sembra impossibile a un essere umano, cioè  “fare del bene e prestare senza sperarne nulla” (Lc 6,35). In realtà queste non sono solo indicazioni riguardanti gli atteggiamenti che gli uomini devono avere tra loro, ma anche e soprattutto il ritratto di chi è Dio, perché il Padre è così, un Dio non buono ma esclusivamente buono, il cui amore si rivolge a tutti e che addirittura “è benevolo verso gli ingrati e i malvagi” (Lc 6,35). Il Dio che Gesù invita a conoscere e accogliere è Amore (1 Gv 4,8) e la sua è un’offerta continua, crescente e incondizionata di bene ad ogni persona, indipendentemente dai suoi meriti.

Per questo nell’invito di Gesù a fare “del bene a coloro che vi odiano” (Lc 6,27), l’evangelista usa l’aggettivo greco kalos che significa “bello” e indica quel che è vero, ideale, modello di perfezione. L’amore rende belli, perché quelli che odiano sono persone brutte. La saggezza popolare ha coniato il detto “brutto come il peccato”, perché chi fa il male imbruttisce se stesso e gli uomini hanno sempre creduto che un gesto d’amore può trasformare il ranocchio in un bel principe (fratelli Grimm).

Gesù non si arrende di fronte alla bruttezza. Sa che la luce vince ogni forma di tenebra e chiede al credente di collaborare con lui per restituire al malvagio la sua bellezza originaria, quindi il suo è un invito a fare belle le persone. È dare la vita per gli altri quel che rende belli, per questo Gesù può presentarsi come “il pastore bello” (Gv 10,11.14), cioè il vero pastore, colui che ha il diritto di chiamarsi tale, l’unico “pastore delle pecore” (Gv 10,2; Is 63,11) perché, prima ancora di essere pastore,  lui è l’ “agnello di Dio” (Gv 1,29). Gesù chiede di sintonizzarsi con l’azione creatrice di Dio che, di fronte a quel che crea, dalla luce all’acqua, dall’erba agli animali, ogni volta esclama che “è bello”, finché, quando crea l’uomo, “vide che era cosa molto bella” (Gen 1,31).

Poi Gesù invita addirittura a benedire quelli che maledicono, a pregare per quelli che trattano male, proprio per mettere in sintonia la propria lunghezza d’amore con quella Parola di Dio che è capace di far fiorire il bello dove questo ancora non c’è. Lo sguardo del Creatore, infatti, non si fissa su quel che l’uomo è, ma su ciò che può diventare grazie all’accoglienza della sua potente Parola creatrice, che, come garantisce il Signore stesso attraverso profeta Isaia, “non ritornerà a me senza effetto, senza aver operato ciò che desidero e senza aver compiuto ciò per cui l’ho mandata” (Is 55,11).

Per far comprendere la qualità di questo amore Gesù chiede di essere “misericordiosi”, perché così lo è il Padre (Lc 6,36). Questo “misericordiosi” viene da un termine greco che traduce l’ebraico rahamim, che indica il grembo, l’utero. Gesù con un grande azzardo, non solo linguistico ma teologico, presenta un Padre che è materno e l’amore materno è quello dell’amore incondizionato. La scelta dell’aggettivo misericor­dio­so indica che l’evangelista non si riferisce al carattere compassionevole della persona, bensì a un’attività abituale permanen­te che lo rende riconoscibile come tale e gli consente di essere sempre disponibile ad  aiutare quanti sono in difficoltà a uscire dallo stato di necessità nel quale si trovano. Prolungamento dell’attività misericorde del Padre, l’azione del misericordioso non è diretta dall’alto verso il basso, ma è un servizio che parte dal basso per rialzare chi si trova prostrato. La misericordia non è tanto un sentimento, quanto il concreto soccorso con il quale viene aiutato chi si trova in difficoltà.

L’AUTORE – Alberto Maggi (nella foto grande di Basso Cannarsa, ndr), frate dell’Ordine dei Servi di Maria, ha studiato nelle Pontificie Facoltà Teologiche Marianum e Gregoriana di Roma e all’École Biblique et Archéologique française di Gerusalemme.

Biblista e assiduo collaboratore de ilLibraio.it, è una delle voci della Chiesa più ascoltate da credenti e non credenti. Fondatore del Centro Studi Biblici «G. Vannucci» a Montefano (MC), cura la divulgazione delle sacre scritture interpretandole sempre al servizio della giustizia, mai del potere. Con Garzanti ha pubblicato Chi non muore si rivede, Nostra signora degli ereticiL’ultima beatitudine – La morte come pienezza di vita, Di questi tempi, Due in condotta, La verità ci rende liberi (una conversazione con il vaticanista di Repubblica Paolo Rodari) e Botte e risposte – Come reagire quando la vita ci interroga. Il suo ultimo libro, sempre edito da Garzanti, è dedicato alla figura di Bernadette.

Fonte: www.illibraio.it