“Che cos’è questa ‘svalutazione’ di cui oggi soffre l’amore? L’amore-passione non è ‘ben visto’; lo si considera come una malattia di cui bisogna guarire; non gli si attribuisce, come una volta, un potere di arricchimento”.
I romantici non se la passano bene ormai da un bel po’ di tempo. Lo diceva già Roland Barthes quando, in un’intervista a seguito della pubblicazione di Frammenti di un discorso amoroso, dichiarava che l’amore era considerato, soprattutto negli ambienti intellettuali, un sentimento fuori moda.
Promesse solenni, giuramenti, impegni e sospiri: le dichiarazioni d’amore, nell’immaginario comune, sono viste come una carrellata zuccherosa di retorica e cliché. Una debolezza, una deviazione dalla razionalità, un delirio sconclusionato e insensato (del resto amore e pazzia condividono la stessa radice etimologica) che ci ha portato ad assimilare spesso il soggetto innamorato a un “lunare”, un folle, qualcuno che ha smarrito la ragione.
In pratica il suo identikit corrisponde a quello dell’Orlando di Ariosto, scavato, spettinato e selvaggio; o al Romeo shakespeariano, impaziente, iperattivo, disposto a scalare un palazzo a mani nude pur di guardare negli occhi l’amata per un secondo; oppure ancora al Werther di Goethe, che decide di non togliersi più il frac turchino e il gilet giallo, perché quello era l’abbigliamento che indossava il giorno in cui ha incontrato Carlotta.
Ma è sempre Barthes, nel suo celebre saggio, a metterci in guardia: perché nella vita urbana attuale non c’è più nessuna delle pose dell’innamorato patetico. E quindi, come potremmo riuscire a riconoscerlo? Magari attraverso qualche canzone malinconica, condivisa in piena notte nelle storie di Instagram; o magari attraverso una citazione appassionata, riportata senza nessun commento nel proprio stato di Facebook. Insomma, sembra che le caratteristiche tradizionali dell’innamorato si siano sbiadite, confuse, annacquate in un tempo che – giustamente – sta imparando a ridimensionare e ridefinire l’ideale di amore romantico.
Eppure, forse, ancora un gesto sopravvive. C’è una spia che può smascherare chi ama, e che non lascia spazio a dubbi: il soggetto innamorato scrive lettere. Lo fa perché ha bisogno di esprimersi, di scavare nella sua emotività, di mettere a nudo il suo cuore traboccante di sentimenti. Certo, potrebbe sfogarsi scrivendo un diario personale, ma è la lettera il genere eletto per gli innamorati, perché è l’unico che riesce in contatto due intimità: l’io e il tu.
Quello della lettera è un rituale tutto amoroso, un scambio privato in cui i due interlocutori possono essere se stessi senza vergogna né paura di essere giudicati (si sa che l’innamorato si sente spesso incompreso), esasperando e gonfiando, come tipico, le parole che descrivono il loro amore.
Per questo, per venire in soccorso degli innamorati che credono di non essere abbastanza capiti dal resto del mondo, abbiamo raccolto alcune lettere d’amore di scrittrici e scrittori che hanno fatto la storia della letteratura.
Così, se anche voi qualche volta, in un atto del tutto fuori moda, vi siete ritrovati a prendere un foglio e una penna e a mettervi a scrivere, sappiate che non eravate soli.
Lettera a E. – Cesare Pavese
“C’è qualcosa di più assurdo dell’amore? Se lo godiamo fino all’ultimo, subito ce ne stanchiamo, disgustiamo; se lo teniamo alto per ricordarlo senza rimorsi, un giorno rimpiangeremo la nostra sciocchezza e viltà di non avere osato. L’amore non chiede che di diventare abitudine, vita in comune, una carne sola di due, e, appena è tale, è morto. A pensarci, si viene matti! È inutile, l’amore è vita e la vita non vuole ragionamenti“.
È il 15 settembre 1932. E Cesare Pavese è a Torino quando scrive questa struggente lettera d’amore. Un testo che inizia come il lamento di un innamorato e che poi si trasforma in una riflessione sui sentimenti e sulla vita. Nel brano si ritrovano, seppur soltanto accennati, molti elementi della poetica dello scrittore, celebre per il suo lavoro di editor in Einaudi e per opere come La luna e i falò e La bella estate. Ogni riga della scrittura di Pavese vibra di malinconia, lasciando emergere la consapevolezza (o la paura) di una fine inevitabile, di un disastro annunciato: “E pensare che probabilmente noi tra poco dovremo perderci, senza quasi esserci conosciuti, senza sapere di noi più che uno sguardo, un bacio alle dita, qualche carezza”. Allo stesso tempo, però, la lingua richiama una dimensione antica, quasi mitologica – i lettori de I dialoghi con Leucò non potranno non ricordarla – che rivela un’assillante esigenza: quella di riuscire a trovare, nell’amore così come nell’esistenza, un senso.
Lettera a Elsa de’ Giorgi – Italo Calvino
“Se mi mancasse il tuo amore tutta la mia vita mi si sgomitolerebbe addosso. Tu sei un’eroina di Ibsen, io mi credevo un uomo di Čechov. Ma non è vero, non è vero. Gli eroi di Čechov hanno la pateticità e la nobiltà degli sconfitti. Io no: o vinco o mi annullo nel vuoto incolore. E vinco, vinco, sotto le tue frustate. No, cara, non hai nulla dell’eroina dannunziana, sei una grande donna pratica e coraggiosa, che si muove da regina e da amazzone e trasforma la vita più accidentata e difficile in una meravigliosa cavalcata d’amore. Ho la tua lettera dal treno”.
Sembra che Elsa de’ Giorgi fosse talmente affascinante che Paola Olivetti, sorella di Natalia Ginzburg, era solita ammonirla: “Sei troppo bella per scrivere […] Tu la vita la devi vivere, insegnare vivendola, non scrivere. Vai a curvare le tue belle spalle. Lascia scrivere i brutti!”. Italo Calvino se ne innamorò subito. La sommerse di lettere in cui le dichiarava il proprio amore e la propria mancanza. Non era, il loro, un amore difficile, anzi: Elsa era per lo scrittore un’amante, un’amica, un’alleata, prima lettrice delle sue opere e fonte d’ispirazione dei suoi racconti: “Io voglio scrivere del nostro amore, voglio amarti scrivendo, prenderti scrivendo, non altro, siamo davvero drogati: non posso vivere fuori dal cerchio magico del nostro amore.”
Lettera ad Alekos Panagulis – Oriana Fallaci
“Io non sono e non sarò mai un ostacolo, un handicap. Io so che esistono cose ancora più grandi dell’amore di una persona o dell’ amore per una persona. Ad esempio, un sogno. Ad esempio, una lotta. Ad esempio, un’idea”.
Famosa è la relazione tormentata e appassionata tra la giornalista Oriana Fallaci e Alexandros Panagulis. Lei una delle figure più controverse del Novecento, inviata di guerra, autrice di libri come I sette peccati di Hollywood e Niente e così sia; lui uno dei leader della resistenza greca, a lungo perseguitato e poi imprigionato per aver attentato alla vita del tiranno Geōrgios Papadopoulos. I due si incontrarono il 23 agosto 1973 per un’intervista, il giorno dopo che Alekos era stato liberato dal carcere. Da questo momento inizia la loro storia, che non avrà mai vita facile (“Aspettami. Io ti ho aspettato tanto”, scrive sempre Oriana nella lettera sopracitata), fino alla morte di Panagulis, avvenuta tre anni dopo, in un misterioso incidente stradale. La traccia più indelebile di questo amore è impressa nella biografia Un uomo, ritratto di Panagulis, testamento sentimentale e dichiarazione, impotente ed eterna, di nostalgia.
Lettera a Scott Fitzgerald – Zelda Fitzgerald
“Domenica. Caro, caro, ti amo così tanto – Oggi sembra Pasqua e vorrei che fossimo insieme a camminare lenti fra i raggi di sole e tra la folla che esce dalla chiesa – tutto odora di buono e di caldo, e il tuo anello è di un biancore così brillante al sole – come uno dei gigli della chiesa con una spruzzata di polvere gialla sopra – dobbiamo essere insieme a primavera – sembra fatta per poterci amare”.
“Belli e dannati”: Zelda Fitzgerald e Scott vissero un amore all’altezza della letteratura: scintillante come le atmosfere de Il grande Gatsby e devastante come quelle di Tenera è la notte. Durante gli iconici anni Venti, i due innamorati consumarono la loro relazione nell’epoca del proibizionismo del jazz, tra feste, alcol e scrittura. Una coppia rimasta nell’immaginario, soprattutto per quest’aurea romantica, burrascosa e dissoluta, di cui molto sappiamo proprio grazie ai loro scambi epistolari. Molte di queste lettere sono state raccolte in Sei per me la sola cosa al mondo, in cui sono presenti alcune delle parole più belle che Zelda inviò a Scott nell’arco di dodici anni, tra il 1919 e il 1931.
Lettera a Diego Rivera – Frida Kalho
“La mia notte sa che mi piacerebbe guardarti, seguire con le mani ogni curva del tuo corpo, riconoscere il tuo viso e accarezzarlo. La mia notte mi soffoca per la tua mancanza. La mia notte palpita d’amore, quello che cerco di arginare ma che palpita nella penombra, in ogni mia fibra. La mia notte vorrebbe chiamarti ma non ha voce”.
Eccola qui, un’altra coppia in grado di nutrire il proprio amore grazie al continuo scambio intellettuale e artistico. Diego Rivera e Frida Kalho si conobbero nel 1922 e si amarono in modo totale e libero, tanto da vivere una relazione aperta, in cui entrambi accettavano l’idea di intrattenere rapporti con altri amanti. Frida, pittrice dall’animo inquieto e dalla vita profondamente dura, perdonò all’uomo per fino il tradimento con la sorella Cristina, acconsentendo a sposarlo una seconda volta. Consumata dalla gelosia e al tempo stesso convinta libertina, la donna ebbe brevi storie con Lev Trotskij, il poeta Andrè Breton e la fotografa Tina Modotti. Eppure Diego rimase l’unico uomo importante della sua vita, a cui dedicò molti dei suoi versi.
Lettera a Simone de Beauvoir – Jean-Paul Sartre
“Se ci fosse stato bisogno di sentire sino a che punto siamo uniti, questa guerra fantasma avrebbe avuto almeno questo di buono, che lo ha fatto sentire. Ma non era necessario. Tuttavia essa dà una risposta alla domanda che vi tormentava: amore mio, voi non siete “una cosa della mia vita” – sia pure la più importante – perché la mia vita non è più mia, non la rimpiango nemmeno e voi siete sempre me. Voi siete molto di più, siete voi che mi permettete di immaginare qualsiasi avvenire in qualsiasi vita”.
L’amore tra i due intellettuali francesi più brillanti del Novecento fa parte della storia della letteratura. L’incontro avvenne nel 1929: Sartre – padre dell’esistenzialismo – era un professore della Sorbona e Simone – madre del femminismo – una delle sue studentesse. La loro relazione, durata cinquant’anni, rispecchia l’anima ribelle e rivoluzionaria dei due amanti. Vivere seguendo i propri istinti, al di là delle convenzioni borghesi del matrimonio e della monogamia, era la loro bussola: nelle numerose lettere che si scambiavano, Simone e Jean-Paul si raccontavano le reciproche avventure, soffermandosi su dettagli intimi e, allo stesso tempo, dichiarandosi un amore scevro da ogni forma di gelosia. Paradossalmente il tradimento era un modo per dichiarare la loro avversione all’ipocrisia e alla menzogna della società: significava vivere nella verità e nella coerenza. Era questo il loro atto di lealtà e di fiducia.
Lettera a Mary Welsh – Hemingway
“Ti ho amato la notte mentre ero sveglio e la mattina presto quando ancora non mi ero del tutto svegliato e ti ho ricordato e ho ricordato quanto bella eri e quanto abbiamo scherzato e ci siamo divertiti insieme. Cetriolino, sento molto la tua mancanza. Ti amo come ben sai. Abbiamo parecchi piccoli problemi qui e alcuni anche grossi ma spero di essere con te tra alcuni giorni. Mi riscriverai quando ricevi questa? Questa non è granché come lettera, ma volevo scriverti. Mary mia carissima, mi dispiace di essere così noioso. Ti scrivo le lettere come mio figlio Gigi: tutte piccole frasi dirette come ti amo”.
Mary Welsh è l’ultima delle quattro mogli di Ernest Hemingway, scrittore che vinse il Premio Pulitzer con Il vecchio e il mare nel 1953 e il Nobel per la Letteratura l’anno seguente. Figura controversa, immenso romanziere americano, modello di scrittura per molti aspiranti autori, Hemingway era anche un uomo depresso, violento e dipendente dall’alcol. Si sposò con Hadley Richardson, una pianista dall’indole pacata e affettuosa, con la quale ebbe il suo primo figlio. Pochi anni dopo la lasciò per la sua amante Pauline Pfeiffer, una redattrice di moda di Vogue, che diventerà la sua seconda moglie. Ma anche per lei è previsto lo stesso destino: lo scrittore si innamora di una scrittrice ambiziosa e intraprendente, Martha Gellhorn, alla quale succede, infine, Mary: l’unica donna che resterà accanto a Hemingway fino al giorno della sua morte.
Fonte: www.illibraio.it