di Massimo Birattari
Il piccolo principe non è un libro difficile da tradurre. È rivolto ai bambini, non alle grandes personnes, come mette in chiaro fin dalle prime righe Saint-Exupéry, e non contiene nessun «gioco di parole intraducibile» che bisogna rassegnarsi a spiegare in nota. La scrittura semplice e diretta e l’ovvia esigenza di fedeltà a un classico contemporaneo hanno dunque ridotto il ventaglio delle scelte. Alcune scelte, però, vanno fatte, se il traduttore vuole restare fedele alla lettera e allo spirito dell’originale.
Un esempio banale, a proposito di grandes personnes: come tradurre, «gli adulti» o «i grandi»? Molto meglio «i grandi», naturalmente. Ma la prima occorrenza, nella dedica a Léon Werth, è al singolare: «Chiedo scusa ai bambini per aver dedicato questo libro a une grande personne». Il singolare «un grande» qui sarebbe ambiguo, «persona grande» non suona idiomatico: dunque meglio «un adulto». Di qui la necessità di mantenere «adulti» nella dedica e all’inizio del testo, per poi passare, appena possibile, a «i grandi».
In generale, il principio della fedeltà mi ha spinto a rispettare i tempi verbali voluti dall’autore, anche nell’alternanza di passato prossimo e passato remoto a poche righe di distanza, per indicare azioni che appartengono allo stesso arco temporale. Uguale fedeltà all’uso del tu o del lei (per tradurre il francese vous) nei dialoghi tra il protagonista e i vari personaggi, con un’importante eccezione. Per tutto il capitolo VIII, il piccolo principe e la rosa appena sbocciata si danno del vous, e passano al tu solo nel IX, al momento dei saluti. Siccome in francese il vous ha e soprattutto aveva un uso molto più ampio del lei italiano, ho pensato che valesse la pena partire subito con il tu (volevo che entrambi usassero lo stesso pronome, e la rosa non avrebbe mai potuto dar del lei a un bambino).
E proprio sulla rosa c’è lo scarto più significativo tra la mia traduzione e l’originale francese. Sull’originale, la rosa amata dal piccolo principe è semplicemente «il fiore», e viene chiamata «rosa» a partire dal capitolo XX (quello in cui il protagonista, ormai sulla Terra, entra in un giardino con cinquemila rose, e si rende conto di non essere «ricco di un fiore unico», ma di possedere «solo una rosa ordinaria»). Per fedeltà alla lettera dell’originale, la traduzione presente da sessantacinque anni sul mercato italiano ha reso fleur con «fiore». In francese, però, la fleur è femminile; così come, al contrario, la parola «volpe» è maschile (le renard). E se, per quanto riguarda la volpe, la cosa non ha conseguenze significative sul testo (non è un problema che il piccolo principe abbia una volpe per amico), con il fiore la questione è diversa. Qui la grammatica genera un conflitto tra la lettera e lo spirito. Quel fiore ha indubbie connotazioni femminili (infatti le traduzioni inglesi usano il pronome she, non il neutro it): è très coquette, si scusa(nonostante la meticolosa toilette) per essere «tutta spettinata» («Mi sono appena svegliata…»). D’altra parte, in francese il sostantivo è femminile. Ma in italiano non esistono sinonimi femminili di «fiore» («infiorescenza» è impraticabile…). Per questo, visto che quel fiore è una rosa(su questo non c’è il minimo dubbio), anticipare il termine proprio, «rosa», mi è sembrata la soluzione migliore, o il male minore.
Per finire, segnalo un problema di «correttezza politica». Il capitolo XVI comincia ricordando che la Terra «conta centoundici re (senza dimenticare, naturalmente, les rois nègres)»: cioè, nella traduzione standard, i «re negri». Per fedeltà all’originale avrei dovuto usare anch’io la parola «negro»? Non è certo questa la sede (e non ho nessuna particolare qualifica) per discutere il senso e gli eccessi del politically correct, un concetto che ha condotto, soprattutto negli Stati Uniti, a proposte di bando dalle biblioteche pubbliche di alcune opere di Shakespeare o a edizioni espurgate delle Avventure di Huckleberry Finn, in cui la parola nigger è stata sostituita da slave. Però oggi, in Italia, i ragazzi (soprattutto i ragazzi) percepiscono la parola «negro» come un insulto, mentre negli anni Trenta e Quaranta nègre, in francese (così come «negro» in italiano), di sicuro non aveva connotazioni negative, come dimostra l’idea stessa di Négritude, la negritudine teorizzata da scrittorie intellettuali come Aimé Césaire e Léopold Sédar Senghor. Poiché la traduzione è per definizione adattamento, anche a un nuovo contesto, ho deciso di tradurre les rois nègres con «i re dell’Africa nera». Non mi pare un intervento censorio (censura sarebbe stata cancellare la parentesi, che contiene una punta di razzismo «d’epoca», verosimilmente inconsapevole); ho solo evitato di aggiungere una connotazione ulteriore, che certo non esisteva ai tempi dell’originale.
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Fonte: www.illibraio.it