Arriva in libreria per Garzanti La ruga del cretino, scritto a quattro mani dallo scrittore di Bellano e Massimo Picozzi, psichiatra e criminologo. Un libro in cui il mondo di Andrea Vitali si colora con le tinte del giallo, portando le lancette del tempo all’epoca degli albori della psichiatria e della nascente criminologia moderna.
La trama ci fa conoscere la terza figlia di Serpe e Arcadio, che si chiama Birce ed è nata storta. Ha una macchia sulla guancia sinistra e ogni tanto si perde via e dice e fa cose strane. Chi la vuole una così? Chi la prende anche solo come servetta di casa? È l’agosto del 1893 e per i due coniugi, lavoranti presso il rettorato del santuario di Lezzeno, poco sopra Bellano, è arrivata l’occasione giusta. Perché una devota, Giuditta Carvasana, venuta ad abitare da poco a villa Alba, è intenzionata a fare del bene, per esempio aiutare una giovane senza futuro. Per Birce non sarebbe cosa da poco, perché la vita non pare riservarle un destino felice. Come a quella povera fioraia di Torino massacrata per strada. A dire il vero, in quell’estate lontana, non è la prima vittima. I loro corpi sono a disposizione della sala anatomica dell’università torinese, dove il dottor Ottolenghi, assistente del noto alienista Cesare Lombroso, li analizza con cura, convinto che dalla medicina possa venire un aiuto alle indagini. Oltretutto, dalle tasche delle sventurate, salta fuori un biglietto con incomprensibili segni matematici. Indicano un collegamento tra quelle morti? E nel mirino dell’omicida può esserci finito lo stesso Lombroso, che già aveva ricevuto un analogo foglietto insidiosamente anonimo? Trovare la soluzione non è cosa per cui possa bastare il rigore della scienza. Forse, fantastica il Lombroso, lo spiritismo potrebbe dare un contributo. Per quanto a praticarlo siano persone fuori dall’ordinario. Un po’ come la Birce, con quella sua macchia e che ogni tanto si perde via e dice e fa cose strane…
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(per gentile concessione di Garzanti)
La Birce, un bel pensiero!
Cosa diavolo avesse lo sapeva il Signore, e forse nemmeno lui.
Sedici anni e il destino stampato sulla faccia: una voglia blu sulla guancia sinistra che sembrava il lago di Como. Solo che ogni tanto diventava rossa e quando succedeva la ragazza si menava via.
Stava via anche delle belle mezz’ore. Quando tornava non lo sapeva nemmeno lei dov’era stata, inutile farle domande.
La prima volta era successo che era poco più di una bambina. Una mattina era andata a regolare le galline e a rassettare il pollaio. Era tornata dopo quasi un’ora con le uova: sette, già sode.
L’Arcadio aveva dato fuori.
Dove sei stata, cosa hai fatto…
Risposta?
«Niente.»
Niente, anche dopo tre o quattro cinghiate.
Lui gliel’aveva giurata: che non si ripetesse più.
Infatti!
Due mesi dopo, la famiglia intera, cioè lui la Serpe e la Birce, perché le altre due figlie Astasia e Veritiera erano già da un pezzo a servizio dalla parte di là del lago, vitto alloggio e cara grazia!, erano a far fieno sui prati della Masmina.
Luglio, sole che cuoceva il cervelletto. Erano rimasti senz’acqua. L’aveva mandata a prenderne un fiasco a una sorgente nei boschi sotto Pradello. La Birce era tornata dopo un’ora e mezza, quando lui e la Serpe non riuscivano nemmeno più a parlare da tanto che erano asciutti. L’acqua era tiepida che sembrava piscia. Le scialesate che le aveva dato avevano lasciato sulle gambe della ragazza dei lividi che erano andati via dopo un mese. Quanto bastava perché ne combinasse un’altra.
Era ormai tempo di pensare alla vendemmia, preparare la cantina. L’Arcadio le aveva detto di grattare la tina, pulirla e lavarla, pronta per l’uva nuova. La Birce era stata via tutto il pomeriggio. Come tempo ci stava. Solo verso sera la Serpe aveva cominciato ad avere qualche dubbio.
Non è che…
Neanche il tempo di dirlo.
La Birce era comparsa sulla soglia di casa al braccio della Perseghèta, una che condiva col veleno anche l’ostia della comunione. Aveva riferito di averla incrociata per caso, spaesata, con un’espressione soave in viso e che alle sue domande aveva risposto in una lingua che sembrava quella del prete in chiesa. Latino.
«Macché latino e latino», aveva risposto la Serpe brancando la figlia per un braccio e tirandola in casa.
La Perseghèta non aveva mollato. Se non era latino, era qualcosa di simile. Certamente non era dialetto.
«Ve lo sarete sognato», aveva ribattuto la Serpe.
La Perseghèta si era offesa.
«Io non mi sogno da sveglia. Io!» aveva ribattuto.
Così il guaio era stato fatto, cretina di una moglie, aveva commentato l’Arcadio una volta messo al corrente.
Cretina, proprio.
Perché c’era da scommettere che nel giro di un paio di giorni la fama della Birce, già traballante per via della voglia sulla guancia, sarebbe stata compromessa del tutto grazie alla lingua della Perseghèta. Cosa che era puntualmente successa. Infatti lo stesso rettore del santuario pochi giorni dopo era piombato in casa dell’Arcadio.
«Cos’è ’sta storia che la Birce parlerebbe latino?»
Ma non solo.
Ormai, di bocca in bocca, la figura della ragazza s’era arricchita di fronzoli sempre più fantasiosi e il rettore, latino a parte, non poteva che essere preoccupato.
«Per il buon nome del santuario, mica per me», aveva puntualizzato.
Ma non poteva tollerare che della figlia del suo sagrestano e della sua perpetua si dicessero cose come quelle che gli avevano riferito in confessione o anche solo così, a quattr’occhi: cioè che quella voglia che aveva in viso fosse segno di benedizione o maledizione, secondo i punti di vista, o che era stata vista mentre parlava con la Beata Vergine o che fosse la reincarnazione di quel Mezzera che aveva assistito al miracolo della Madonna che piangeva lacrime di sangue nel lontano 6 agosto 1688.
Erano cose che non facevano bene alla nomea del santuario. Cose che se fossero arrivate all’orecchio della Curia avrebbero potuto mettere lui in grave difficoltà.
L’Arcadio e la Serpe s’erano guardati col timore che il rettore fosse andato lì per mandarli fuori dalle balle.
Perché poi dove sarebbero andati? In che modo avrebbero campato la vita?
(continua in libreria…)
La ruga del cretino (Garzanti)
Fonte: www.illibraio.it