È mattina presto nella baia di Punta Este, in Uruguay. Si sente solo il rumore delle onde che si abbattono lievi sulla battigia e lo stridere dei gabbiani. Per Tom, professore d’inglese, è l’ultimo giorno di vacanza, prima di tornare a Buenos Aires, dove insegna. Improvvisamente sulla spiaggia appare una colonia di pinguini ricoperti di petrolio, ormai senza vita. Ma in lontananza c’è qualcosa che ancora si muove. Il professore si avvicina e si accorge che un pinguino, uno solo su centinaia, è sopravvissuto. Anche se è in fin di vita, Tom decide di provare a salvarlo in tutti i modi. Corre a casa e, con delicatezza, riesce a pulirlo. Il pinguino è vivo, e grazie alle cure si riprende. Ma quando Tom tenta di riportarlo al mare, nel suo ambiente naturale, il pinguino non vuole entrare in acqua e inizia a seguirlo. Il professore lo porta a Buenos Aires con sé. Questo è l’inizio della grande amicizia fra Tom e Juan Salvador il pinguino, fatta di corse su una vecchia motocicletta solo per vedere il mare, cene a base di pesce crudo e partite della squadra di rugby della scuola in cui il professore insegna e di cui Juan Salvador diventa la mascotte. Perché Juan Salvador è un pinguino speciale e cambia la vita di tutti quelli che lo conoscono, soprattutto quella di un ragazzo che ha troppa paura dell’acqua. Insieme a lui, forse, anche il pinguino troverà di nuovo il coraggio di tornare a nuotare. Uno dei fenomeni più importanti della Fiera di Londra del 2015 e caso editoriale cresciuto grazie al passaparola dei lettori, Storia del pinguino che tornò a nuotare di Tom Michell è adesso in libreria per Garzanti.
Per gentile concessione dell’editore, su ilLibraio.it pubblichiamo il prologo del libro e alcune illustrazioni:
Se negli anni Cinquanta, quando ero piccolo, mi avessero detto che un bel giorno la mia vita sarebbe stata indissolubilmente legata a quella di un pinguino e che, almeno per un periodo, saremmo stati io e lui contro il mondo, non avrei fatto obiezioni. Dopotutto, mia madre aveva tenuto tre alligatori in casa a Esher finché non erano diventati troppo grossi e pericolosi per l’elegante cittadina e i guardiani dello zoo di Chessington li avevano portati via. Quella di tenerseli in giardino non era stata una sua scelta. Fino a sedici anni aveva vissuto a Singapore e, al momento della partenza per l’Inghilterra, la sua migliore amica, nel dirle addio con le lacrime agli occhi, le aveva regalato tre uova come souvenir. Durante la lunga traversata via mare le uova si erano schiuse naturalmente, e naturalmente mia madre aveva dovuto portare i piccoli con sé. Anni dopo, nei momenti di malinconia, qualche volta osservava che il fantasioso regalo probabilmente era il pegno di amicizia più sensazionale che le fosse mai stato offerto.
Avevo familiarità sia con gli animali domestici sia con quelli selvatici. Crescendo in un contesto rurale si ha una visione realistica della vita. Conoscevo il destino delle volpi e del bestiame delle fattorie. Gli animali esotici, invece, li avevo visti solo allo zoo e nella mia immaginazione. Come avrebbe fatto in seguito la Walt Disney, traevo ispirazione dal genio di Rudyard Kipling. Potevo identificarmi completamente con i protagonisti del Libro della giungla e di Kim, e anche se era passato più di mezzo secolo i miei giorni di scuola erano identici a quelli descritti nei suoi libri.
È vero. La mia educazione era imperniata su una visione edoardiana del mondo. I miei genitori erano nati in diverse parti dell’impero e avevo nonni, zii, zie e cugini sparpagliati in tutto il globo: Australia, Nuova Zelanda, Canada, Sudafrica, India, Ceylon (l’odierno Sri Lanka), Singapore, Rhodesia (Zimbabwe), Nyasaland (Malawi) e così via. Quei luoghi mi sembrava quasi di conoscerli. Diverse volte l’anno giungevano lettere – e, con frequenza assai inferiore, i loro autori – che accendevano la mia fantasia infantile con racconti sull’«Africa nera» e simili. Io, però, volevo esplorare qualche altro posto, un territorio sconosciuto, una vera terra incognita. A quanto pareva, nessuno di mia conoscenza si era mai avventurato in Sudamerica. Perciò, quando frequentavo ancora la scuola, decisi che da adulto sarei andato lì. A dodici anni comprai un dizionario di spagnolo e in segreto cominciai a imparare frasi in quella lingua. Quando si fosse presentata l’occasione, sarei stato pronto.
Passò una decina d’anni prima che quella possibilità si realizzasse, sotto forma di un annuncio su «The Times Educational Supplement» che recitava: «Cercasi insegnante per collegio in Argentina». Il ruolo era così palesemente adatto al mio scopo che, mezz’ora dopo, la risposta in cui annunciavo che la loro ricerca poteva considerarsi conclusa era nella cassetta delle lettere, pronta a volare dall’altra parte dell’Atlantico. Per quanto mi riguardava, ero già in viaggio.
Prima di partire, ovviamente, indagai sulla situazione economica e politica del paese. Uno zio che lavorava al ministero degli Esteri mi fornì informazioni preziose sulla instabilità del governo peronista. Era probabile che si verificasse un altro sanguinoso colpo di stato militare, suggerivano i nostri servizi segreti. Il terrorismo dilagava; omicidi e sequestri di persona erano all’ordine del giorno. Si pensava che solo l’esercito avrebbe potuto riportare l’ordine. Nel frattempo la mia banca londinese mi fornì alcune informazioni economiche sull’Argentina: un vero caos! In breve, tutti mi dissero con fare un po’ paterno che andare in quel paese era un’idea assurda e, date le circostanze, del tutto impraticabile. Nessuno con la testa sulle spalle si sarebbe mai sognato di farlo. Questo, ovviamente, era proprio quello che volevo sentirmi dire e l’incoraggiamento di cui avevo bisogno.
Mi fu offerto un posto da insegnante con obbligo di residenza, ma le clausole del contratto non erano molto allettanti. Il collegio mi avrebbe pagato il biglietto di un solo viaggio di ritorno, a condizione che mi fermassi per un intero anno accademico. Mi sarebbero stati versati i contributi pensionistici e avrei ricevuto lo stipendio in valuta locale. A causa della gran confusione che regnava nell’economia, il preside non sapeva tradurre la mia remunerazione in termini di potere d’acquisto. A ogni modo, era conforme a quella del resto del personale docente. Fintanto che avessi risieduto nel collegio, mi sarebbe inoltre stato fornito vitto e alloggio. E questo era quanto.
Mi assicurai di avere sul conto abbastanza denaro per comprare un biglietto di ritorno da Buenos Aires, in caso di emergenza; grazie agli accordi presi dalla mia banca con una filiale del Banco de Londres y América del Sur a Buenos Aires, avrei potuto prelevare dai miei fondi londinesi, se si fosse presentata la necessità. Dei soldi, però, non mi preoccupavo. Mi ero messo in moto e presto avrei appagato il desiderio di avventura che provavo fin da bambino; sarei partito alla scoperta di quale fosse il mio destino. Che la sorte mi assegnasse un pinguino come amico e compagno di viaggio – futuro argomento di numerose favole della buonanotte per generazioni di bambini non ancora nati – fu una svolta sorprendente, ancora ben oltre l’orizzonte occidentale.
Il pinguino Juan Salvador ha incantato e divertito chiunque lo abbia conosciuto in quei tempi bui e pericolosi, giorni che videro il crollo del governo peronista fra atti di terrorismo e rivoluzione violenta, mentre l’Argentina vacillava sull’orlo dell’anarchia. Era un’epoca in cui i diritti, le opportunità e gli atteggiamenti erano completamente diversi da quelli di oggi. Tuttavia fu possibile che un giovane viaggiatore come me e l’inimitabile, indomito pinguino Juan Salvador diventassero i più allegri compagni, come ebbi a scoprire dopo averlo salvato, in circostanze drammatiche, dalle acque mortali al largo delle coste dell’Uruguay.
Ecco anche il booktrailer del libro:
Fonte: www.illibraio.it